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SIGUR ROS |
Með suð í eyrum við spilum endalaust |
XL/EMI |
2008 |
ISL |
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Quanti luoghi comuni ci forniscono un’immagine distorta di terre e paesi che non conosciamo per esperienza diretta: così come le feste popolari scandinave sono quanto di più scanzonato si possa immaginare, con buona pace di chi possiede un’idea tetra di tali luoghi, gli islandesi Sigur Rós sono un quartetto di buontemponi che vorrebbero sfatare l’immagine malinconica e depressa affibbiatagli loro malgrado. Nel loro caso, oltre alla prossimità del Circolo Polare Artico, l’etichetta di seriosità è accentuata dal fatto di suonare un genere denominato “post-rock” (ma esiste sul serio?) notoriamente identificato dalla critica con una supposta attitudine non proprio carnevalesca. Il volto goliardico dei Sigur Rós si deduce certamente dal recente DVD in forma di documentario “Heima”, proiettato nelle sale di tutto il mondo, ma anche – e nella stessa misura – dalla parabola musicale che li ha portati a concepire un album come “Takk”, già più accessibile e soprattutto questa nuova opera dal titolo chilometrico (traduzione: “con un ronzio nell’orecchio suoniamo all’infinito”) che incorpora grandi dosi di folk islandese, lo stesso che da secoli scalda il cuore dei bambini con le sue storie di elfi delle rocce (“huldufólk”) e di piccoli guardiani della terra (“landvættr”).
Registrato tra Islanda, Inghilterra, Stati Uniti e Cuba, con un produttore d’eccezione, lo stesso Flood che contribuì assieme a Eno e Lanois a plasmare il suono “maturo” degli U2, l’album vede per una volta la band utilizzare esclusivamente il suo idioma natio (con un paio di eccezioni), accantonando l’usuale lingua fonetica (“Hopelandic”). Ad accompagnare il nucleo del gruppo, come di consueto, le Amiina con i loro archi e all’occorrenza un ensemble di ottoni.
Avendo raggiunto ormai un invidiabile seguito di pubblico, i Sigur Rós cercano con il loro quinto album di conciliare ricerca e fruibilità, audacia e ingenuità, consci di poter contare su un’audience fedelissima e disposta sino ad ora a accettare qualsiasi mossa artistica, pubblicando il più solare dei loro dischi e probabilmente il più sincero. L’aspetto ritmico assume maggiore importanza, con tamburi marziali, glockenspiel ed un basso spesso suonato in modo percussivo (con le bacchette) da Georg Hólm.
Che il disco contenga delle novità lo scopre da subito con “Gobbledigook”: le percussioni, la cadenza della chitarra acustica e dei versi suggeriscono un baccanale o una danza di fauni e ninfe, come suggerito anche dal videoclip che ha accompagnato la pubblicazione del singolo. La nuova tendenza è confermata da “Inní mér syngur vitleysingur”: una festosa marcetta con tanto di ottoni e archi che trasuda l’innocenza che nel precedente “Takk” era rappresentata da “Hoppipolla” e dal festoso crescendo bandistico di “Við spilum endalaust”
Una menzione la merita certamente “Ára bátur”: registrata in presa diretta negli studi di Abbey Road con la London Sinfonietta ed il coro della London Oratory School, dopo un esordio in sordina si trasforma nel brano più magniloquente mai inciso dai Sigur Ros, che passano dalla consueta dimensione cameristica ad una più maestosa identità sinfonica. Un brano stupendo che rappresenta il vertice dell’album.
In brani come “Góðan daginn” e “Festival” è invece evidente la continuità con le opere precedenti, anche se la voce di Jónsi Birgisson si mantiene sempre rilassata e nostalgica, più equilibrata che in passato e mai sopra le righe; l’ipnotica immobilità di “()” la ritroviamo in “Fljótavík” (dove fa il suo debutto il nostro amato Mellotron!) e l’esperienza “unplugged” documentata dell’album “Heim/Hvarf” trova seguito nella deliziosa “Illgresi”
“All alright”, cantata in un inglese inintelligibile, chiude l’album in tono minore, con la voce sussurrata e l‘orchestra lontana, quasi fosse la trasposizione onirica di un episodio del watersiano “The final cut”, una rassicurazione che ci accompagna gentilmente in uno stato di torpore dopo un viaggio denso di emozioni durato un’ora.
Da segnalare la pubblicazione dell’album anche nel formato doppio vinile, questa recensione si basa in effetti sull’ascolto di tale versione, anche se il contenuto musicale coincide con quello del più economico CD.
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Mauro Ranchicchio
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