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SIGUR ROS Valtari EMI Parlophone 2012 ISL

Un battello che salpa senza sfiorare la superficie dell’acqua, tra bagliori innaturali e suggestioni innescate dalla sovrapposizione di immagini ingiallite.
Come spesso accade con gli artwork di copertina della band islandese, la trovo una perfetta simbologia per un album che lambisce l’ascoltatore in un modo più elusivo che mai, puntando su una stratificazione sonora che pure solo di rado raggiunge i climax e i parossismi cui i Sigur Rós ci hanno abituati in passato. Un disco dalle forti influenze ambient, verrebbe da dire al primo ascolto, se non fosse che la presenza sonica, per quanto apparentemente eterea e impalpabile, finisca per rivelarsi piena, coinvolgente e dal peso specifico non certo inferiore a qualunque cosa abbia pubblicato in passato il quartetto di Reykjavík.
Parlare della genesi di quest’album può forse rendere più chiare alcune delle scelte adottate. Al termine del tour con cui fu promosso “Með suð í eyrum við spilum endalaust”, negli ultimi scorci del 2008, fu deciso unanimamente di approfittare di una “pausa a tempo indefinito” da dedicare alle rispettive famiglie, e mentre poco o nulla abbiamo saputo di tre di loro (a parte la composizione classica/corale di stampo sacro “Credo” da parte del tastierista Kjartan), per il frontman Jónsi questo è significato intraprendere la strada da solista (“Go”) e con il duo ambient Riceboy Sleeps assieme al compagno Alex Somers. Al momento di ritrovarsi assieme in studio, oltre a curare la pubblicazione del live “Inni” (contenente un antipasto del nuovo lavoro, quella “Lúppulagið” qui rielaborata e rinominata “Varðeldur”) e con esso chiudere una parentesi artistica sul passato, i nostri si sono ritrovati dinanzi diverse alternative: riprendere il lavoro su alcune tracce abbozzate già nel 2009, nel mezzo della fase “dormiente”, durante una breve incursione in studio apparentemente poco fruttuosa; cestinare tutto e ritentare il processo di scrittura ex novo e quindi allungare ulteriormente il gap, rischiando di perdere momentum e popolarità; infine, riciclare alcune sessioni risalenti addirittura all’epoca di “Takk”, inclusa una collaborazione con il quotatissimo coro inglese The Sixteen, diretto da Eamonn Dougan. “Valtari” è il frutto di un compromesso volto a includere tutte queste fonti disparate, con la scommessa di rendere il risultato abbastanza omogeneo da fornire l’impressione di un album dal senso compiuto e non una semplice raccolta di inediti o, peggio ancora, semilavorati. Per raggiungere lo scopo, i quattro sono riscorsi in fase di missaggio al lavoro di Alex Somers, probabilmente per la necessità di un orecchio esterno che fornisse un punto di vista obiettivo sul lavoro fin qui svolto.
Da questo punto di vista, Valtari è un successo assoluto: era dall’epoca di “()” che un album dei Sigur Rós non suonava così stilisticamente coerente: i fattori che contribuiscono all’uniformità del disco sono una propensione a disegnare paesaggi sonori malinconici mediante la lenta sovrapposizione di pennellate: qualche loop (ma l’uso dell’elettronica si esaurisce qui), gli archi del quartetto Amiina, cori, pianoforte e inaspettatamente una chitarra presente più che altro in modo impressionistico e raramente graffiante; la voce di Jónsi spesso in primo piano, a volte infarcita di effetti, ma meno protagonista (addirittura gli ultimi tre brani sono strumentali!); la batteria di Orri virtualmente assente in oltre metà dei brani; le parentesi gioiose e i semplici brani per chitarra acustica presenti su “Takk” e “Með suð…” assolutamente banditi, forse definitivamente convogliati nel lavoro solista di Jonsi.
Abbiamo brani come “Eg anda” (“Io respiro”) ed “Ekki mukk” (“Non una parola”, uscita anche come singolo apripista) che pur posti all’apertura del disco non hanno alcuna fretta di decollare e pongono le basi per gli sviluppi successivi, con lunghe introduzioni atmosferiche e la voce di Jónsi - giustapposta ai loop della stessa - che sembra provenire da trasmissioni ultraterrene intercettate per l’occasione dalla radio di bordo del battello fluttuante; una meravigliosa “Varuð” (“Cautela”), impreziosita da un coro di voci bianche, gli archi diretti da Daníel Bjarnason (che già contribuì all’arrangiamento dell’orchestrale “Ara batur” nel disco precendente) e da un crescendo finale guidato dal basso pulsante di Georg, da tamburi cadenzati che possiamo immaginare essere suonati dagli stessi ragazzi del video di “Glósoli”, ormai cresciuti, e finalmente l’archetto di Jónsi a straziare le corde della sua chitarra; la dolcezza di “Rembihnútur"” (“Nodo d’arresto”), in cui Birgisson sembra tornare su coordinate vocali più terrene e che costituisce assieme al brano precedente l’unico vero punto di contatto con i Sigur Rós del recente passato; la commovente “Dauðalogn” (“Calma piatta”) - a mio avviso secondo highlight del lavoro – in cui la sua vocalità inadulterata raggiunge il vertice, priva di qualsiasi filtro o manipolazione, supportata dalle sedici voci del coro, producendo un solenne magnetismo che può definirsi liturgico. Come preannunciato, i tre brani posti in chiusura spostano un po’ l’accento su suggestioni atmosferiche e appena più “elettroniche” (non nelle timbriche, ma nelle tecniche di sovraincisione): “Varðeldur” (“Falò”) e “Fjögur píanó” (“Quattro pianoforti”), reiterando accordi e note tintinnanti di piano, nel primo caso accompagnati da vocalizzi, con un ipnotico effetto carrillon, nel secondo creando un impossibile gioco ad incastri degno di un disegno di Escher, mentre l’estesa title-track (“Rullo compressore”) è l’unico episodio la cui apparente immobilità rende opportuni accostamenti con il lavoro “ambient acustico” di Jónsi & Alex, se non addirittura all’esordio “Von”, pur con l’enorme maturazione fornita da quindici anni di esperienza in studio.
Con “Valtari”, i Sigur Rós pubblicano senza dubbio uno dei loro album di più difficile assimilazione: se gli archi di “Ágætis byrjun” potevano addolcire le loro tendenze sperimentali, se i crescendo elettrici di “()” erano appetibili da una platea amante del post-rock, se “Takk” e specialmente “Með suð…” univano tutte queste tendenze aggiungendo elementi pop e allargando drasticamente le potenzialità di apprezzamento, quest’album pare sfruttare il momento di grande popolarità per mettere certe cose in chiaro, quasi volendo spiazzare chi si è avvicinato a loro grazie all’ubiquità di “Hoppípolla” o “Gobbledigook” o alla sonorizzazione dei documentari della BBC, costringendo l’ascoltatore occasionale a confrontarsi con la loro vera anima, introspettiva e idiosincratica. L’effetto della gran risonanza di un album anti-commerciale come questo potrebbe essere quindi analogo a quello causato da quel “Kid A” con cui nel 2000 i Radiohead vendettero la sperimentazione alle masse: ben tornati, Sigur Rós, questa è solo una delle mille ragioni per accogliere festosamente il magico battello islandese nei nostri porti.



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Mauro Ranchicchio

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SIGUR ROS Takk 2005 
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SIGUR ROS Inni (CD + DVD) 2011 

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