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AGUSA |
Två |
The Laser's Edge |
2015 |
SVE |
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Gli Agusa sembrano avere le idee chiare. Secondo album in studio, intitolato per l'appunto “Due”, composto da due sole lunghe tracce che includono, come nella migliore tradizione folk svedese, un bel Gånglåt (una melodia con ritmo di marcia, per i digiuni in materia), intitolato per la precisione “Gånglåt från Vintergatan” e cioè della Via Lattea. E già con queste poche informazioni vi ho fornito sufficienti indizi per capire di che panni si veste questo nuovo album. Profumo di Svezia, prima di tutto, con un'importante componente folk. Narrazioni sonore ampie e dilatate, alle quali del resto il gruppo ci aveva già abituati con un debutto discografico di tutto rispetto pubblicato appena lo scorso anno, e importanti contaminazioni psichedeliche con floride iniezioni di organo Hammond, suonato come al solito dall'abile Jonas Berge. Se questi presupposti vi lasciano però sperare in qualcosa di sporco e graffiante, devo avvisarvi che vi ingannate. Le trame tastieristiche, sicuramente corpose e di grande impatto, le venature hard blues della chitarra di Mikael Ödesjö, a tratti persino Hendrixiane, le duttili intelaiature della sezione ritmica, col basso di Tobias Pettersson e la batteria del nuovo arrivato Tim Wallander (che sostituisce egregiamente il vecchio Dag Strömkvist) non hanno nulla di rabbioso ma al contrario, con la loro ripetitività, il loro incedere pigro e cadenzato e le sonorità dai contorni mal delineati, hanno il potere di assuefare e stordire l'ascoltatore che ben presto si ritroverà sicuramente perso a fantasticare nei suoi pensieri, completamente distaccato dalla realtà. Una piacevole aggiunta alla formula che già conoscevamo è data dal flauto della new entry Jenny Puertas, discreto, delicato e ben integrato in un contesto sonoro molto sfumato ed indefinito. I riferimenti musicali più immediati sono simili a quelli che mi venivano in mente per il precedente lavoro e riguardano per la precisione i connazionali Kebnekaise, per le loro inconfondibili melodie folk impastate di psichedelia e Bo Hannson per i paesaggi tastieristici dilatati e sognanti. La coda della prima traccia lascia i sentieri del folk per impregnarsi di elementi cosmici e Floydiani che hanno la funzione di traghettarci lentamente verso il pezzo successivo, “Kung Bores dans” e anche questo titolo, direi, proietta nella nostra mente immagini nordiche molto caratteristiche. Il re del titolo non sarebbe altri che la personificazione dell'Inverno, stagione duratura e particolarmente sentita in Scandinavia. Il buio, il freddo, il lento e interminabile fioccare della neve sembrano entrarci quasi nelle ossa. Le sonorità sono oscure e pastose, i ritmi gravi e lenti, le immagini sonore suggestive e malinconiche. Le venature hard blues contribuiscono a scaldare l'ambiente, grazie anche ai lunghi assoli di chitarra che si snodano puliti e flessuosi attraversando atmosfere oniriche e pensose. L'organo fornisce un sottofondo stratificato e denso, ruvido e penetrante, e la tensione emotiva cresce impercettibilmente ma in modo costante. Si tratta di un pezzo intenso, con le sue fasi di stagnazione, le sue belle accelerazioni, le sue sorprese. L'aspetto percussivo è elaborato con molto gusto e permette alle melodie di svilupparsi in modo libero, grazie anche a un sapiente inserimento delle percussioni tradizionali. La durata complessiva dei brani è contenuta, non arriviamo ai 38 minuti totali, suddivisi in modo abbastanza equo fra i due episodi, ma questo non è un grosso punto a sfavore di un album molto equilibrato e a cui non metterei né toglierei niente. Non saprei dire se sia migliore o peggiore rispetto all'esordio. Ha forse un carattere diverso, questo sì, ma è sicuramente un'opera da prendere in considerazione, soprattutto se siete degli amanti del prog svedese delle ultime generazioni.
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Jessica Attene
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