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JONO EL GRANDE |
Melody of a muddled mason |
Rune Grammofon |
2015 |
NOR |
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E’ vero che con gli avanzi del cenone di capodanno potresti andarci avanti tranquillamente per un bel pezzo… e in un certo senso è proprio quello che ha fatto Jon Andreas Håtun, in arte Jono el Grande, con i due precedenti lavori, “Phantom Stimulance” e “The Choko King”, belli, certamente, ma entrambi frutto di rielaborazioni e ripescaggi vari. E’ anche vero però che a tutto c’è un limite ed ecco che finalmente salta fuori un album nuovo a tutti gli effetti e che, a questo punto, si propone come l’erede naturale di quel “Neo Dada” che nel 2009 (quanto tempo è passato!) ci fece tanto divertire, deliziandoci con la sua musica assolutamente fuori dal comune, intrisa di ironia e di sicuro intrattenimento. Ascoltando questo album, decisamente breve con i suoi 35 minutini stirati stirati, specie se ci rapportiamo con le attuali uscite su CD, mi è venuta in mente un’interessante analogia. Mi sono ricordata infatti di come, nei favolosi anni Settanta, gli altrettanto folli Samla Mammas Manna passarono da un disco bizzarro e disconnesso come “Klossa Knapitatet” (1974) a quell’idillio sinfonico che spero tutti voi conosciate e che porta il titolo di “Snorungarnas Symfoni” (1976). Ecco, forse non siamo a livelli così pacati e pastorali ma mi sento di dire tranquillamente che tutto lo strano mondo di Jono, fatto di iperboli e goliardate, trova la sua sublimazione sinfonica proprio in questo nuovo album. Non posso certo affermare che il nostro a dir poco istrionico compositore e polistrumentista si sia in qualche modo pentito circa i suoi propositi artistici, ma troverete qui dentro una luce diversa ad illuminare le sue esplosioni creative. Vi accorgerete di come le sue capacità compositive si siano assolutamente affinate, di come sia cresciuta la cura nei dettagli, di come i tanti stili che attraversano velocemente il suo repertorio si siano armonicamente legati l’un l’altro e non è certo facile far convivere influenze forti come quelle Zappiane col filone Canterburyano, qualcosa di Magma, Gentle Giant ed Henry Cow, condito da qualche lampo di musica contemporanea sulla scia di Stravinsky… Vedete che gli elementi in gioco sono così eterogenei che neanche io riesco a spiegarmi al meglio ma un semplice ascolto fugherà all’istante ogni minimo dubbio. Partite pure dall’inizio e cioè da “Bach’s Beach” che forse è il pezzo che mi ha fatto più di tutti saltare all’orecchio quel paragone con “Snorungarnas Symfoni” di cui vi parlavo. Si tratta di una sinfonia al tempo stesso buffa e deliziosa, costruita su arrangiamenti pieni zeppi di complesse minuterie. Rilucono le sue colorazioni vintage con Rhodes e Farfisa, gli elementi orchestrali con intriganti svolazzi di flauto e violino, l’onnipresente vibrafono, il cantato assolutamente Zappiano, gli intrecci fitti della chitarra e le varie miscele di sax. Otto minuti di un goffo idillio che vi incanterà. I nove minuti successivi sono quelli della title track, e siamo già volati a metà dell’opera. Questa volta gli umori sono più tetri e sembrano quasi quelli di un luna park abbandonato e illuminato da una fioca e giallognola luce lunare. I ritmi sono più lenti ma a Jono piace sempre giocare con sensazioni ambigue ed ecco che il cantato, sempre Zappiano, stride con certe atmosfere drammatiche, a tratti gotiche, dipinte dagli archi ed i cori femminili angelici, a loro volta, danno un tocco un po’ inconsueto a situazioni sonore a tratti fin troppo sinistre e non prive di qualche crisi di nervi con aperture jazz ben pronunciate. Ma non pensate a chissà quali contrasti, tutto qui è miscelato in modo sapiente ed armonioso e a prevalere sono in fondo, come anticipato, certe visioni sinfoniche. Addirittura nella traccia successiva, “Lament X”, interamente costruita su intrecci di archi, Jono è riuscito a conservare un’aria seria e rigorosa per tutto il tempo, anche se si tratta a dire il vero di poco più di un minuto… Con “Violent Water Promenade” il tono dell’umore sale e le reminescenze Canterburyane diventano palpabili. Anche nella successiva “Abiding Swanson” persistono le tonalità gentili e le melodie deliziose che si snodano in un tessuto musicale leggiadro e denso di dettagli. Solo il cantato, come al solito un po’ goffo, ci fa sempre dubitare circa il rigore e la serietà di questo personaggio che riesce a sfoggiare grande tecnica e virtuosismo senza mai andare sopra le righe, anzi, tentando sempre di sviare il suo pubblico distraendolo con travestimenti improponibili ed altre trovate strampalate. I giochi si chiudono con “Smother Eve II”, brano caratterizzato da una seconda parte oscura ma popolata da scenari magici e che mi ricorda un po’ i finlandesi Uzva per la sua complessa raffinatezza. Se è possibile che certi tipi per i quali è assolutamente impossibile essere seri, o per lo meno rimanerlo troppo a lungo, possano maturare, oserei dire che questo è l’album della maturità. Fosse stato un pelino più lungo avrei gradito ancor di più perché quando la musica è così stuzzicante è sempre un peccato che termini troppo presto.
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Jessica Attene
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