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ANIMA MUNDI I me myself autoprod. 2016 CUB

Mi ha lasciato l’amaro in bocca, ormai diversi anni fa, la virata che il gruppo cubano fece in direzione di un Progressive Rock di stampo decisamente anglosassone, addirittura Prog Metal a tratti, dopo averci offerto un gioiellino quale il loro album d’esordio “Septentrión” nel 2002. Intendiamoci… non è che la virata abbia dato risultati negativi! Posso avere delle remore per alcuni passaggi decisamente troppo sbilanciati su atmosfere energiche e pompose, ma tutti i lavori sono, oltre che godibili, comunque decisamente ben realizzati e prodotti professionalmente, cosa che per una band cubana, come si può intuire, non è che sia proprio banale. E’ solo che mi piace quando le influenze specifiche geografiche di una band trovano riscontro nella musica prodotta, magari con fusioni ardite tra musica popolare locale e dettami più anglosassoni. Le produzioni successive degli Anima Mundi invece potrebbero essere uscite dalle mani di un qualsiasi gruppo inglese, olandese o statunitense e niente, ad orecchio inconsapevole, potrebbe far pensare all’isola caraibica; non che questo sia un difetto in assoluto, ovviamente, ma, come dicevo, il primo album aveva fatto sperare qualcosa di diverso.
Ecco quindi il loro nuovo lavoro, il quinto in studio, che registra l’arrivo di un nuovo vocalist, nella persona del giovane Michel Bermudez, e del sassofonista Marco Alonso che si affiancano alla formazione ormai (si spera) consolidata, coi membri storici Roberto Diaz e Virginia Peraza ancora a reggere le fila. I 18 minuti di “The Chimney, the Wheel and the War”, divisi in 4 movimenti, aprono l’album. Musicalmente non paiono esserci grosse novità, ripercorrendo i sentieri stilistici già proposti nell’album precedente (“The Lamplighter”), con toni epici ed aperture strumentali che accompagnano un concept sulla relazione tra l’uomo e la tecnologia. Sicuramente la atmosfere sono, in generale, meno scoppiettanti che in passato, con molti momenti più riflessivi e con melodie talvolta ampie ed avvolgenti, timidi accenni fusion e parti cantate usate col contagocce. I suoni e gli umori sono spesso cupi e quasi minacciosi, in sintonia col concept, con sinistri echi floydiani (“Echoes”, “Wish You Were Here” e “A Momentary Lapse of Reason” su tutti, come riferimenti) e ritmiche che raramente vanno sopra le righe.
“Somewhere” (poco meno di 11 minuti divisi in due movimenti) segue dappresso e pare voler amplificare le sensazioni angosciose instillateci dall’opener. Break improvviso… un intermezzo melodico di alcuni minuti, con la voce di Michel in bella evidenza, e poi di nuovo aperture epiche, con chitarra e tastiere che ci urlano contro e che lasciano poi spazio a un finale affidato ad un sax spettrale.
Le successive “Flowers” e “Clockwork Heart” sono i brani più brevi dell’album (6 e 4 minuti); la prima evidenzia stranamente alcune difficoltà di Michel con la lingua inglese. Il brano presenta al contempo atmosfere pesanti e ossessive ma anche piccoli riferimenti a Yes, Genesis e Flower Kings, cosa che parrebbe strana, ma tant’è. La seconda è una canzone abbastanza ordinaria, timidamente funky, ma inaspettatamente gradevole e con belle parti di tastiere.
L’ultima suite dell’album, “Train to Future” (15 minuti per due movimenti) comincia in maniera scoppiettante, con tastiere e ritmiche brillanti che ci riportano indietro coi precedenti album della band. La traccia sembra poi giocare sui contrasti tra una batteria potente e atmosfere fragili spettrali, costruendo al contempo atmosfere dense e piene di pathos. Un magniloquente assolo finale di chitarra chiude degnamente questa traccia, non prima però di udire qualche nota di violoncello che non può mancare quando si parla di atmosfere inquietanti. Il disco si conclude coi 7 minuti di “Lone Rider”, una ballad con belle parti vocali, chitarra acustica e tastiere di sottofondo.
“I Me Myself” è un album che mi riconcilia pienamente con gli Anima Mundi, pur con le remore esposte in apertura. Il nuovo vocalist fa un po’ rimpiangere l’ottimo Carlos Sosa, andatosene ormai da tempo, ma è giovane ed avrà tempo di migliorare il proprio contributo alla band, nonché il suo rapporto con l’inglese (che non è pessimo, intendiamoci). L’album è godibile, mai banale e sicuramente da consigliare a tutti gli amanti del Prog sinfonico.


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Alberto Nucci

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