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CAST Vigesimus Progressive Promotion Records 2021 MEX

Il traguardo dei venti album di studio è qualcosa di ragguardevole per qualsiasi band a prescindere dalla latitudine, ma nel caso dei Cast ciò è doppiamente degno di nota, considerando che il Messico, pur avendo dato la luce ad alcune ottime band già negli anni ’70, non si pone certo come epicentro della scena progressiva mondiale (ma neppure americana), tenendo conto dei lunghi anni in cui l’ostinata band di Luis Alfonso Vidales si è affidata totalmente all’autoproduzione (per giunta negli anni ’90 in epoca pre-Internet) e delle vicissitudini umane e professionali che hanno accompagnato la quarantennale carriera della band. L’album, dall’eloquente titolo a rimarcare con orgoglio il numero ordinale che lo contraddistingue, si presenta con una ancora più eloquente copertina, in cui fa capolino il giullare, simbolo di fatto universale del prog-revival e presenza quasi costante nella loro iconografia.
Nei Cast di oggi, il cui output è ormai da tempo distribuito in maniera più capillare, il new-prog dei primissimi Arena incontra le orchestrazioni dei migliori Kansas, le influenze classiche e i barocchismi accompagnano con naturalezza un’interpretazione vocale convincente, il tutto valorizzato a dovere da un mix che - malgrado la compresenza ingombrante di tre strumenti solisti (chitarra elettrica, tastiere, violino) - riesce a far sì che questi non si pestino mai i piedi, bensì ne esalta interazioni e giustapposizioni. Il progressive dominato da tastiere e flauto dei primi Cast, quelli in cui il compianto Dino Brassea (alla cui memoria il disco è dedicato) interpretava il ruolo di frontman, lascia spazio ormai da numerosi album a questa parte ad una proposta sensibilmente più heavy, dimostrando che si può esserlo senza necessariamente sconfinare nel prog-metal, grazie anche alla chitarra di Claudio Cordero che suona certamente più “robusta” rispetto allo stile del suo predecessore Francisco Hernandez Reyes. Il resto della formazione resta invariato rispetto al disco precedente “Power and outcome” (2017), il che significa che l’arma in più del gruppo, il violino dell’italianissimo Roberto Izzo (già collaboratore di New Trolls e The Winstons, nonché session man per artisti prettamente mainstream) continua a far sentire imperiosa la sua voce. I brani strumentali e quelli cantati si alternano e acquisiscono nel fluire dell’album (della durata di oltre 70 minuti) la stessa rilevanza, al punto che – nonostante apprezzi moltissimo le prestazioni di Bobby Vidales e della vocalist di supporto Lupita Acuña – i soli strumenti conferiscono un’invidiabile completezza alla proposta. Tutto ciò in un ambito prettamente rock, ossia non dobbiamo pensare che i citati “classicismi” conducano il lavoro in territori già percorsi da band come The Enid o Mandalaband: qui il livello di energia e la freschezza sono tali da fare invidia anche a band dall’età più verde, né tantomeno ritroviamo gli influssi jazz-rock ed etnici che hanno contraddistinto la fase centrale della loro carriera (pensiamo a o “Al-bandaluz”, “Nimbus” o “Com.union”), forse anche per la defezione del fiatista Pepe Torres.
Il disco non presenta cadute di tono, né d’altro canto brani che si elevano al di sopra del resto, ma si tratta di un livello compositivo sempre eccellente: citiamo l’assalto sinfonico di “Ortni”, brano di apertura strumentale che mette subito le carte in tavola: il new-prog di stampo britannico è potente e contaminato da un’attitudine magniloquente ma non al punto da risultare pomposa; le tastiere onnipresenti di Vidales (spesso e volentieri il pianoforte, ma anche i synth con timbrica di archi, che ben si amalgamano al violino) si fanno da parte per permettere ad Izzo e Cordero (che qui elargisce anche fraseggi di chitarra classica quasi in stile flamenco) di duellare; il paragone più calzante è quello con le migliori band brasiliane contemporanee (Caravela Escarlate, Kaizen, Arcpelago), al cospetto delle quali si percepisce una virtuosità messa al servizio della melodia. Tra gli episodi cantati, colpisce l’uno-due costituito da “Black ashes and black boxes” che può vantare linee vocali dinamiche e “contagiose” su una base ritmica non certo scontata (un plauso particolare all’altro membro fondatore presente, il batterista José Antonio Bringas) e l’elaborata e trascinante “The unknown wise advice”, sempre con il violino alla ribalta e i virtuosismi di una chitarra elettrica a briglie sciolte. Si tira un po’ il fiato con la ballata “Another light”, che ci ricorda un po’ le recenti opere rock concepite da Clive Nolan, ma i fuochi d’artificio sinfonici torneranno eccome con titoli come l’orientaleggiante “Manley” o la mini-suite “Contacto”, in cui le influenze dei nomi storici del genere vengono a galla, pur sempre mediate dall’ormai inconfondibile stile Cast. Impossibile poi non menzionare l’ariosa e sognante “Crossing”, in cui l’impiego del synth richiama vagamente il Mike Oldfield di QE2 e le melodie ci riportano ai tempi in cui gridammo al capolavoro per “Songs from the lion’s cage”. Quando si è ormai certi che l’album abbia detto il meglio di sé, si chiude con un ulteriore brano di 10 minuti, ideale dimostrazione di quanto il compositore Vidales e i suoi degni scudieri abbiano costantemente perfezionato la loro arte album dopo album.
Ammetto di non conoscere l’opera omnia dei Cast, e di conseguenza non sono forse la persona più adatta a giudicare il disco nel contesto generale della loro traiettoria artistica; allo stesso tempo mi sento di non sbagliare ipotizzando che al ventesimo tentativo il gruppo di Mexicali possa aver tirato fuori – se non il suo capolavoro – un album al vertice della loro discografia che li conferma alfieri indiscussi del prog latino-americano.



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Mauro Ranchicchio

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