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SYNDONE Kāma Sūtra Ma.Ra.Cash Records 2021 ITA

La band torinese fondata dal tastierista Nick Comoglio, ormai da tempo impegnata su concept o comunque su tematiche che possono essere definite importanti, intitola il suo ottavo album come il testo indiano per antonomasia dedicato all’amore e al comportamento sessuale. Un’opera attribuita a Vatsyayana e collocata all’interno di un margine temporale piuttosto ampio, tra il I ed il VI secolo d.C. L’album è quindi incentrato su questo testo sanscrito, in cui gli esseri umani si pongono l’obiettivo di giungere ad una armoniosa realizzazione di se stessi, senza trascurare alcun aspetto della vita terrena. Un trattato che si affianca a quello sull’arte politica (“Athasastra”) e a quello sul senso etico (“Manusmirti”), il cosiddetto Dharma, che si crea tra l’equilibrio del Benessere (sia fisico che economico) e per l’appunto del Desiderio.
Comoglio, anche stavolta, è affiancato dall’altro tastierista Gigi Rivetti, la vibrafonista Marta Caldara e – last but not least – il potente cantante Riccardo Ruggeri. Ci si avvale ancora una volta della collaborazione con la Budapest Scoring Symphonic Orchestra, condotta dal maestro Francesco Zago, mentre cambia nuovamente la sezione ritmica, con l’ingresso del bassista Simone Rubinato e del batterista Eddy Franco. Proprio il basso suona potentissimo nell’iniziale “It’s Only Make Believin’”, facendo a gara con gli acuti di Ruggeri, in un andamento hard-prog in stile Atomic Rooster, in cui l’organo Hammond ha ben presto il sopravvento. Lo scorrere del brano d’apertura non è comunque lineare, le strofe sembrano quasi Zappiane, esplodendo poi di colpo e confluendo nella successiva “Nirvana”, anch’essa per nulla uniforme. Si barcolla in quella che è un’autentica sensazione di ebbrezza dettata dal sesso e dal potere, tornando alle asimmetrie di Frank Zappa ricreate dall’intreccio delle tastiere, passando poi senza accorgersene alla strumentale “Carousel”, stritolati in una vera bolgia strumentale, che si rivela sinfonica e orgiastica. Una baraonda che centrifuga l’ascoltatore, il quale necessita di un momento di quiete. “Into The Kama” tende in questo senso una mano, col duetto vocale tra Ruggeri e l’ospite Annie Barbazza che va in crescendo. Oltre a ciò, questo andamento notturno viene sottolineato dall’orchestra e da altri ospiti agli strumenti a fiato, per qualcosa che sicuramente suona maggiormente bucolico rispetto a quanto ascoltato fino a questo momento, ma la sorpresa è dietro l’angolo: il sitar suonato da Riccardo Di Gianni apre nuove danze dall’umore dionisiaco, comunque cupe, soprattutto per gli strumenti ad arco che volteggiano come delle valchirie nel cielo nuvoloso e buio, dipinto con colori forti dal basso e anche dalla batteria che non dà alcuna tregua, per poi troncare tutto di colpo. “Bitches” è emblematica fin dal titolo, anche se c’è da scommetterci che il testo in realtà alluda a qualcosa di più ampio a livello sociale. Musicalmente, era stata aperta da dei vocalizzi lirici che facevano preludere a un momento intimo; si dimostra invece ancora una volta un pezzo dardeggiante, suonato e cantato in maniera sfrontata, anche quando entra in gioco l’orchestra che deve fare da sponda alle tastiere, con il basso profondo che continua ad essere la spina dorsale dell’intera impalcatura. I suoni dei sintetizzatori portano poi al culmine finale. “You Still Shine” è molto teatrale, addirittura operettistica in chiave Queen, lungo preludio alla spigolosa ed abrasiva “Sex Toys R Us”, in cui la solennità che si respira nella Valle dell’Indo scopre un insieme di voci fitte che poi vengono soverchiate dai fiati irriguardosi dello storico David Jackson (ex Van der Graaf Generator). E siccome è tutto un confluire, ecco che dopo la breve strumentale “2 Thousand IO” arriva “Sacred & Profane”, introdotta come un trasfigurato jazz raffinato che si muove nella notte. Poi, però, viene fuori un approccio (soprattutto vocale) debitorio del blues, finendo in un crescendo sempre più incisivo che a tratti potrebbe persino ricordare gli Arabs in Aspic; le parti che sembrano chitarristiche sono qua eseguite sempre tastieristicamente da Rivetti, come specificato nelle note di copertina. Il pezzo poi cambia completamente, diventa molto più giocoso e l’organo Hammond torna a ruggire. “We Are The World We Created” apre le braccia della sinfonia drammatica, di natura quasi russa, e il cantato di Ruggeri si cala perfettamente nella parte, accompagnato da uno struggente pianoforte e poi dal vibrafono, concludendo con delle inaspettate scorribande tastieristiche, che conducono poi dalla malinconia verso il trionfalismo. Chiude quindi “Peace On Earth”, brano che tira definitivamente il sipario.
Un album sicuramente multiforme quello preso in esame, molto complesso e non di facile presa, nonostante certe fasi non possano non essere definite orecchiabili. I contenuti sono vari ed occorre prestare attenzione per non cadere in valutazioni superficiali, tipo quelle di chi individua il Kāma Sūtra come un semplice e pittoresco insieme di immagini che rappresentano posizioni erotiche, da guardare solo per soddisfare pruderie fisiologiche. Quella parte, in realtà, costituiva solo una piccola percentuale (un capitolo, esattamente) di un’opera che ha superato decine e decine di secoli, parlando delle relazioni uomo-donna e anche di come essere un buon cittadino. Tornando alla band piemontese, anche stavolta ha fatto senza dubbio un buon lavoro, dimostrandosi ancora una volta tra le più impegnate compagini del settore, soprattutto in territorio italico (e dintorni).



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Michele Merenda

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