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ASIA Phoenix (2CD special edition) Frontiers 2008 (Asia Music Ltd, 2016) UK

Non è forse questo il luogo adatto ove ripercorrere le tortuose vicende degli Asia, considerando il numero di abbandoni, avvicendamenti e ritorni che ne hanno mutato organico e ridimensionato l’appeal commerciale nel corso della loro ultratrentennale esistenza. Basti ricordare che, dopo i due LP del 1982 e 1983 che riscossero enorme successo di pubblico (in special modo l’esordio), al contempo deludendo le aspettative di chi sognava un avventuroso supergruppo di rock progressivo, iniziarono le defezioni e i conflitti di ego tra i blasonati membri fondatori, causando ben presto l’uscita di Steve Howe, seguito poi da John Wetton (per breve tempo rimpiazzato da Greg Lake, formazione immortalata nel video “Asia in Asia”) e dal crescente disimpegno di Carl Palmer, culminato nella reunion degli ELP di “Black Moon”. A reggere la bandiera per due decenni, ormai scemato l’interesse del grande pubblico per un certo tipo di proposta, ma con una fan-base ancora affezionata, fu il tastierista Geoff Downes, coautore con Wetton di gran parte dei fortunati brani degli esordi, che si assicurò per lungo tempo i servigi del cantante-bassista John Payne, divenuto l’altra colonna portante della band e per qualche anno anche del chitarrista Guthrie Govan, oggi apprezzatissimo solista nella band di Steven Wilson. Fino al fatidico anno 2006, quando i nostri riescono chissà come a mettere da parte rancori e differenze musicali e, dimissionato l’incolpevole Payne, ricostituiscono la formazione originale sotto l’egida “Original Asia”, subito partendo per un fortunato tour.
L’album qui in esame è proprio il primogenito partorito nel 2008 dal ritrovato quartetto Wetton/Downes/Howe/Palmer, ristampato in formato deluxe dalla neonata etichetta personale della band: si tratta in pratica di due versioni quasi identiche dell’album”Phoenix”, in edizione europea (con due brani rivisitati in veste acustica, impreziositi dal violoncello di Hugh McDowell della ELO) e in edizione americana (con il singolo “Never again” remixato appositamente per questo mercato… sempre che tale affermazione abbia un senso!).
Il lavoro, pur riallacciandosi idealmente al discorso interrotto (o almeno alterato) dopo l’album “Alpha”, anche con esplicite citazioni e analogie nell’alternanza di vigorosi brani pop-rock da stadio (la già citata “Never again“, “Alibis”, “Shadow of a doubt”) e power ballad che – prendendo a modello “The smile has left your eyes” – riescono a colpire l’obiettivo grazie alla sincerità insita nella voce di Wetton (“Nothing’s forever”, “I will remember you” e soprattutto “An extraordinary life”), evita riproposizioni stantie di suoni troppo legati ad un periodo ormai lontano, e soprattutto introduce alcuni graditissimi elementi che i progster saluteranno con favore. Non sto parlando di suite paragonabili ai capolavori delle band di provenienza dei quattro, eppure il medley “Parallel worlds/Vortex/Déyà” è certamente l’episodio musicalmente più avventuroso dell’intera discografia degli Asia: la prima parte, in formato canzone, si regge sul carisma di Wetton e su una melodia misteriosa e suadente, con interventi incisivi e jazzati di Howe e cede il passo ad un intermezzo strumentale in cui il piano di Downes duetta con una liquida chitarra elettrica, con la sezione ritmica in vorticoso(!) tumulto; infine la coda, introdotta da una spagnoleggiante chitarra classica, colpisce per il suo lirismo (francamente inaspettato in un brano degli Asia) e, malgrado “Soon” sia il paragone più vistoso, dato l’inimitabile stile della slide guitar, mi sento di descriverla come un ibrido tra la sezione finale di “A saucerful of secrets” e il celeberrimo tema da “Giochi proibiti” di Narciso Yepes!
L’altra mini suite è quasi altrettanto interessante: “Sleeping giant/No way back/Reprise” esordisce con un synth di matrice techno che interagisce con la chitarra-sitar (strizzatina d’occhio a “Relayer”?) e un avvolgente coro; la parte centrale è un brano che riecheggia “Owner of a lonely heart” (ricordiamo che fu proprio Howe a paragonare lo stile degli Yes di Rabin ai suoi contemporanei Asia…), con il pulsante basso di Wetton ad iniettare energia, fino a chiudere il cerchio con la ripresa del tema d’apertura.
Se alcuni dei restanti brani propongono ancora soluzioni strumentali accattivanti (“Wish I’d known all along”, “Over and over”), altri, sinceramente, aggiungono poco all’economia del lavoro, sia perché troppo scontati (“Heroine”) o perché riproposizione di idee già ampiamente utilizzate altrove (come la prima cover della loro carriera: “Orchard of mines” dei Globus).
Come sappiamo, seguiranno lavori in studio che segneranno poche variazioni (o nessuna) alla formula qui proposta: “Omega” e “XXX” sono album onesti che forse stentano però a ritrovare l'ispirazione che fa di “Phoenix” un ritorno che soddifa appieno le aspettative; seguirà anche il nuovo abbandono di Steve Howe nel 2013, che metterà quindi fine anche a questa seconda vita della lineup originale.


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Mauro Ranchicchio

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