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BIG BIG TRAIN Folklore English Electric Recordings 2016 UK

Una antica superstizione vuole che se i corvi della Torre di Londra moriranno o voleranno via, la Corona cadrà e con essa la Gran Bretagna. Forse il corvo ritratto sulla copertina di questo nono full length in studio (il quarto dall'ingresso di David Longdon nel ruolo di cantante solista) rappresenta proprio l'anima dell'Inghilterra che vive nel cuore di tutti gli uomini e le donne che con le loro storie di vita quotidiana hanno reso grande questo paese. A loro è dedicata la produzione più recente dei Big Big Train che continuano nella loro splendida opera narrativa consegnandoci nuove storie ed aneddoti di gente comune ma straordinaria e ritratti di paesaggi tipici inglesi. Forse la radice del termine “Folklore” va cercata proprio qui. Una interpretazione letterale di questa parola, a ben vedere, male si adatta a descrivere il contenuto di questo album.
Non vi ritroverete infatti pezzi tradizionali o arie folk: al massimo c'è qualche elemento decorativo qua e là individuabile in qualche aria di flauto, elementi ritmici o intarsi acustici, linee di mandolino e poco altro. Tracce più consistenti le possiamo al massimo trovare in “Winkie”, con le sue piccole suggestioni celtiche scandite da un ritmo di tamburo che ricorda quello del Bodhran ma nulla di più. E' proprio la traccia di apertura a fare da cornice all'album e a chiarire meglio il concetto: le storie antiche dei nostri antenati sono state tramandate prima oralmente e poi attraverso la scrittura. Ancora oggi, nell'era della comunicazione elettronica, continuiamo coi nostri racconti. Il solenne squillo della tromba, e del corno e, a seguire, gli archi introducono cori accattivanti e arie melodiche sottolineate da imponenti tastiere che dipingono scenari suggestivi ma estremamente radiofonici.
Ritroviamo effettivamente il gruppo esattamente dove lo avevamo lasciato con l'EP “Wassail”, uscito lo scorso anno a fare da apripista a questa nuova produzione, riscoprendolo in piena forma ma anche più affabile e leggero rispetto a produzioni recenti decisamente più potenti. Non scordiamo che nel frattempo si è concretizzata una tappa storica per i Big Big Train con la pubblicazione di un live, “Stone & Stell”, che ha richiesto una lunga preparazione nel tentativo di riadattare dal vivo le loro composizioni complesse. La line-up di “Folklore” è la stessa che si è esibita al Kings Place di Londra la scorsa estate (otto elementi, grazie all'ingresso ufficiale del cantante solista dei Beardfish Rikard Sjöblom e della violinista Rachel Hall, ed un quintetto di ottoni) con l'aggiunta di un quartetto d'archi. Credo fosse inevitabile che la musica presentasse meno sovrapposizioni e intrecci e un mood più diretto ma anche molto intenso e comunicativo sul piano emotivo.
Lo scorrere implacabile del tempo ed i graduali mutamenti del paesaggio vengono dipinti nella successiva “London Plane” che ci riporta indietro negli anni quando un vecchio albero mise radici sulla riva di un fiume, rimanendo lì a guardare mentre la città pian piano gli cresceva attorno. Anche la musica sembra fluire dolcemente alla deriva, sull'onda emotiva di un cantato struggente. Il continuo subentrare di momenti strumentali che si rincorrono alla fine di un pezzo melodico, romantico ed estremamente lineare aggiungono un po' di frizzantezza fra momenti jazzy, fughe sinfoniche e lunghi assoli con arrangiamenti ricchi e variabili ma si tratta di una complessità effimera se si guarda in prospettiva, in tutta la sua estensione, un album estremamente docile e non privo di retaggi eleganti, senza dubbio, ma poppish.
“Along the Ridgeway” scorre ancora con dolce pigrizia sfoggiando arrangiamenti soavi col piano, soffici coltri di tastiere, gli archi, gli arpeggi morbidi ed Hackettiani, un cantato che si fonde quasi con la musica e abbellimenti inseriti in quantità minime per non rendere pesante una composizione volatile ma allo stesso tempo ricca di delicate colorazioni timbriche. Appena più tesa e melodrammatica è la breve “Salisbury Giant”, più decisa nei suoi slanci sinfonici ma, come per paura di alzare troppo il tiro, la successiva “The Transit of Venus Across the Sun” ci riporta su territori decisamente più lineari ma non meno affascinanti. Una apertura che sa molto di Beatles, quelli più orchestrali ovviamente, prelude a momenti intensamente Genesisiani, con riferimenti a “Selling England” che si stemperano in una composizione ancora una volta cantabile, fatta di ripetizioni, cori che già ad un primo ascolto ti sembra di conoscere da una vita e melodie chiare disegnate da un sound particolareggiato ma cristallino. La storia è quella dell'astronomo amatoriale Patrick Moore che dopo aver perso l'amore della sua vita ha ridato una nuova direzione alla sua esistenza grazie alle stelle. In “Brooklands” è invece raccontata la storia di John Cobb, pilota che ha vissuto ad alta velocità, morto nel 1952 nel tentativo di battere il record mondiale in acqua a Loch Ness. A prevalere non sono però le fughe ma una melanconia di fondo dolce e cupa, intrisa di nostalgia con momenti di grande pathos e melodie intense. Le lunghe sequenze strumentali sono decisamente pittoriche e sembrano tratteggiare scenari tratti da un film immaginario in modo tale che il racconto sia delineato non solo dal testo ma soprattutto dalla concatenazione delle sequenze melodiche. Questo brano, piacevolmente complesso, ben articolato e come al solito ricco negli arrangiamenti, rappresenta forse, senza nulla togliere alle altre composizioni, uno dei momenti più alti dell'opera.
L'ultima storia ci racconta invece di un ragazzo che, dopo la morte del padre, ucciso durante la prima guerra mondiale, si dedica al delicato compito di allevare le api. Alle api tradizionalmente sono legate le nascite, i matrimoni e le morti nelle famiglie degli apicoltori che svolgono per tale motivo un compito assai prezioso. I registri tornano radiofonici con melodie cantabili, un'apertura acustica che ricorda un po' Cat Stevens e sviluppi successivi che potrebbero appartenere al repertorio più commerciale dei Genesis. Ho volutamente omesso dalla mia disamina “Wassail” di cui avevo già parlato in dettaglio in occasione dell'uscita dell'omonimo EP e non voglio aggiungere nulla di più.
Al termine dell'ascolto le emozioni sono tante e l'impressione è che il gruppo abbia fatto di tutto per creare delle composizioni che possano rimanere a lungo nel cuore di chi le ascolta grazie a melodie incisive, uno stile immediato ed arrangiamenti deliziosi dalle belle colorazioni orchestrali. C'è stato effettivamente un cambio di rotta, forse in una direzione non auspicata da qualcuno anche se lo stile è sempre quello che abbiamo imparato ad apprezzare nella recente discografia del gruppo. Sono certa che le emozioni arriveranno nettamente anche a quelli che avrebbero preferito qualcosa di più avventuroso, lasciatevi quindi guidare da queste e non ve ne pentirete assolutamente.



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Jessica Attene

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