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COPERNICUS Disappearance Nevermore/ Moonjune 2009 USA

Questo disco, seppur basato su un’idea non certo nuova (musica + poesia), sovverte e destabilizza la concezione stessa della musica. Principalmente si tratta di un problema lessicale, di un problema deprivativo: il disco è stato volutamente derubato del suo elemento esistenziale e il compromesso che lo ha consentito nasce dall’unione tra testi insensati recitati e musiche improvvisate dalla band che supporta questo folle personaggio dal soprannome di Copernicus.
Lui è un newyorkese, non di primo pelo e già con una fitta discografia alle spalle, originariamente tutta in vinile o audiocassette, ma l’etichetta Moonjune, presto, stamperà tutto su CD, tentando di portare questo strano artista ad una maggiore conoscenza.
Le continue farneticazioni fantascientifiche che hanno per oggetto i quark, il plasma, i neutrini, il nulla, la materia e l’energia, farciscono testi senza fine, lamentosi, atoni, amelodici, assurdi e pedanti, ripetendoci fino alla nausea un lamento proveniente dalla più piccola particella subatomica: “The Quark is real”. E, arrivati alla fine del disco, nonostante tutto, non è ancora riuscito a convincerci. Insomma, che questo quark sia reale o meno, sinceramente, non ci frega una mazza e la cosa folle è che l’autore stesso, immagino, ne sia fermamente consapevole.
Credo che la cosa più difficoltosa, nell’affrontare l’ascolto, sia condividere con l’autore questo suo problema esistenziale, questa sua eterna disperazione, questa visione gotica e pesante nel nulla, visto che qui è proprio di nulla che si discute. Paradossalmente, è proprio l’autore a non volere questa condivisione, è lui il primo ad allontanare l’ascoltatore a voler prendere le distanze utilizzando un linguaggio troppo personale e onanistico. L’ultimo paradosso, che è poi quello fondamentale, è che proprio in questo tentativo di allontanamento risieda l’aspetto fascinatorio del disco. Un potere strano, maligno che pone contenuti e argomenti poliformici e sinuosi. Poliformici e contrastanti, di rifiuto e amore, di fredda analisi e di emotiva passione. Di coinvolgimento e di distacco. Come possono, in fondo, un quark o un neutrone essere coinvolgenti e passionali, se non pensandoli niente più che i mattoncini base stessa della nostra vita.
Ancora non si è accennato al discorso musicale. La musica è essenzialmente accessorio e mai gli è consentito di assurgere a protagonismo, in mezzo ad un fiume di parole e di concetti reiterati, posti in maniera prolissa e ridondante nei lunghi brani. Alla fine dei conti si tratta di un tappeto, meno presente all’inizio e via via sempre più pieno, fino al finale con le maggiormente ricche e lunghissime “Poor Homo Sapiens” e “Revolution!!” Musicalmente questi tappeti sono sufficientemente variegati, ma mai in grado di vivere di luce propria e, se sradicati dal contesto letterario, rappresenterebbero frammenti di cose che il nostro orecchio accosterebbe bene, con un forte senso di déjà vu a Frank Zappa, Beefheart, Pink Floyd (molto presenti atmosfere stile “Obscured By Clouds”), Beatles, Debussy, Cage, Peter Blegvad (qualcuno conoscerà il suo Orpheus, con Andy Partridge degli XTC), Glass, Gong, con lampi di freejazz, blues, psichedelia, elettronica. Alcune parti solo musicali, frammenti di pochi secondi in effetti, appaiono pronte per esplodere, per dire quello che durante tutto il resto del lavoro non è stato espresso, ma è soltanto un’impressione: basta contare fino a tre e la voce cavernosa, roca, impastata, aritmica di Copernicus ritorna. Tutto musicalmente è però quasi celato e dimesso, sotto la strabordante espressività lirica di Copernicus, che recita come un attore la sua parte in un monologo stravagante. In effetti credo che l’intero lavoro possa essere immaginato come un provino dove l’attore, sul palco, sia a recitare la sua stessa follia, ma con atteggiamenti diversi, come se ripetendo le stesse cose con tono, accento e recitazione diversa la vita possa cambiare intorno a lui. L’amara sorpresa è che la vita non cambia e qui sono la rabbia, la delusione, il fallimento, la bancarotta morale dell’uomo a cui non resta che esprimere il suo lamento, all’infinito.
L’ascolto di Copernicus lascia interdetti, il suo linguaggio è anomalo e se un valore c’è, sinceramente, è ben custodito ed è alla portata solo di chi saprà tiralo fuori. E questo il fascino del lavoro? Io me lo chiedo ancora.



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Roberto Vanali

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