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HUGH HOPPER Hopper tunity box Compendium 1977 (Cuneiform 2007) UK

Alle superiori, interrogato di storia senza saperne moltissimo, avevo una frase d’esordio che spiazzava i professori e li metteva sempre in posizione benevola nei miei confronti: “Prima di tutto inquadriamo storicamente e geograficamente l’evento.” Cioè quello che c’è da fare per questo lavoro.
Kent (o zone limitrofe) seconda metà degli anni ’70. Sono passati già alcuni anni da quando Hopper, non condividendo le scelte del Soft Machine, li lascia. Ha gia prodotto un disco solo, quell’immenso, pazzesco, indecifrabile eppure affascinante miscuglio di genialità che è stato “1984”, è passato attraverso una serie di interessanti collaborazioni con Stomu Yamash’ta, con Wyatt e con gli Isotope. Nell’area canterburyana si sono mossi passi non certo flebili, che hanno lasciato cose come i Matching Mole e gli Hatfield and the North e tutto il genere ha lasciato l’anima più psichedelica, dadaista e sperimentale dei primi anni per confluire in ambiti decisamente più vicini al jazz d’avanguardia. Dalla cintura londinese arrivano strani echi destabilizzanti chiamati “Punk” e il nostro eroe, con un bagaglio di idee fuori dal comune, un basso ben accordato e una manciata di amici, seguendo l’idea dei National Health, per i brani che confluiranno dell’album omonimo, si rivolge a Jon Anderson per registrare con lo studio Mobile Mobile. Il prodotto così nato è questo Hopper Tunity Box (Opportunity Box). Gli amici che lo hanno accompagnato sono innanzi tutto Dave Stewart che per l’occasione porta alcuni marchingegni, quegli oscillatori che riempiono l’atmosfera di suoni molto personali e riconoscibilissimi in tutte le sue performance dell’epoca. Poi c’è il batterista Mike Travis, fantastico nel suo drumming preciso e rapido. I due (purtroppo mancati) sassofonisti Elton Dean e Gary Windo, divisi nei brani ma anche tra saxello e sax tenore. Frank Roberts, piano Fender Rodhes, che porta un tocco più funkeggiante e americano, Richard Brunton chitarra elettrica e, grande, grandissimo Mark Charing alla cornetta.
Il vinile originale aveva un piccolo difetto, forse di stampa, forse nel master, forse nel missaggio… come un piccolo salto nei solchi, una mancanza di qualche millisecondo nel brano “The Lonely Sea And The Sky”, che portò più di un acquirente a tentare di cambiarlo. Nel 1999 (?) uscì un’edizione digitale, mi verrebbe da dire una parolaccia sulla sua qualità, comunque l’infima qualità deve aver fatto capire alla Cuneiform che sarebbe stato il caso di riprendere in mano la cosa e fare un bel lavoro. Il bel lavoro è stato fatto perché questo nuovo CD suona molto molto simile al vinile originale e fortunatamente senza il difettuccio citato.
Nove brani tra i quali spiccano le meraviglie della title Track e di “Gnat Prong” dove Stewart è semplicemente grandioso. “The Lonely Sea And The Sky” dal carattere maggiormente jazzistico, meno nobile (a giudizio del sottoscritto) l’andazzo funky di “Crumble” dove il carattere più sbarazzino poco si addice alla monumentale serietà di questo lavoro.
Le note di basso di “Mobile Mobile” portano ad un rientro di Stewart ancora magico con i suoi suoni e il rullare di Travis rendono il tutto una gioia canterburyana senza fine. Jazz-Rock a livelli mitici per Spanish Knee, dove il basso di Hopper e il saxello di Dean creano un qualcosa che raramente si è sentito. Chiude il disco, all’insegna di una melodia molto personale, Oyster Perpetual, con una linea di basso a fare la ritmica e un’altra sovrancisa, a fare la lirica. La nuova edizione è accompagnata da due paginette del booklet scritte appositamente da Hopper.
Questo, cari lettori, è uno dei 25/30 dischi di Canterbury che vanno avuti, conosciuti e coccolati, chi non lo ha si porti avanti con il lavoro.

 

Roberto Vanali

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