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HABELARD2 Maybe autoprod. 2017 ITA

Sergio Caleca è il tastierista (e anche chitarrista) della prog band degli Ad Maiora, ma già da tempo si dedica anche a progetti solisti, sotto il nome di Habelard2, che hanno prodotto sin ora due album “Qwerty” nel 2013 ed “Il ritorno del gallo cedrone” nel 2015. A differenza degli episodi appena citati in cui Caleca si occupava di tutti gli strumenti, per “Maybe” si avvale dell’aiuto di amici del circuito prog, tra i quali gli Ad Maiora al completo oltre a membri dei Silver Key, dei Maxophone, dei Phoenix Again, dei The Watch e della Alex Carpani Band. Il risultato complessivo segna un deciso miglioramento rispetto ai due lavori precedenti. Gli 11 brani, alcuni dei quali scritti già negli anni ’70 ed ’80 (altri invece sono più recenti), vedono così la loro veste definitiva in questo nuovo lavoro. Per la maggior parte si tratta di composizioni strumentali, di prog “romantico”, in cui le suggestioni del prog “storico” dell’autore emergono decise e spaziano dai primi Genesis (quelli con Phillips…), ai primi lavori di Steve Hackett, passando per i Camel, per i Caravan e, non ultimi, gli… Ad Maiora. Brani raffinati, con un buon imprinting melodico, rarefatti, in qualche occasione più decisi, in cui emerge l’eclettismo strumentale di Caleca come, ad esempio, in “Stringa” un breve bozzetto strumentale interamente suonato da lui. Molto convincente risulta la pastorale “Chi era Laynson?” in cui affiorano gli evocativi suoni del flauto, del clavicembalo, dell’oboe, degli archi per un brano dalla squisita fattura rinascimentale. Ottima anche “Looking for an ashtray”, ben interpretata da Paolo Callioni (degli Ad Maiora), in cui ad una parte soffusa con piano, chitarra acustica ed archi, segue una seconda dominata dai synth e con una ritmica più accentuata. Un altro brano molto valido è “Waiting for a savior”, cantato stavolta da Alberto Ravasini dei Maxophone. Pezzo dinamico, con qualche rimando genesisiano, ma sempre con un tocco personale di Caleca (stavolta anche al sax, riprodotto dal synth). Una composizione scritta 40 anni fa e ri-arrangiata nel 2012 dà il titolo all’album e rappresenta il vertice compositivo della raccolta. A fare da fil rouge sono ancora le atmosfere sognanti dei primi Genesis alle quali l’autore aggiunge gli archi a creare arabeschi sonori molto emozionanti e suggestivi. Gli altri pezzi sono comunque tutti apprezzabili e di buon valore e dimostrano che la scelta dell’artista di avvalersi di collaboratori per “Maybe” si è dimostrata vincente. Un lavoro di classe che consigliamo a tutti gli amanti della musica (e del progressive in particolare) per il suo essere scevro da tecnicismi e per la sua capacità di colpire direttamente l’anima, sensibile, dell’ascoltatore. Veramente bello.



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Valentino Butti

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