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KORAI ÖRÖM Korai öröm Szerzöi Kiadás 1995 UNG

Inizia a formarsi nel 1990 il nucleo degli ungheresi Korai Öröm, per poi raggiungere forma compiuta nel 1994. Fin dall’inizio i ragazzi si dedicano ad una tanto intensa quanto spettacolare attitudine live. Suonano in diverse parti d’Europa, Italia compresa, ed in patria vengono invitati ad importanti festival (Volt Festival, Tokaj Hegyalja Festival, EFOTT e Balaton Sound, tanto per citarne alcuni). Tra le loro fila passano parecchi musicisti e nel primo lavoro omonimo (perché di omonimi in carriera ne verranno sfornati parecchi…) ve ne sono ben undici.
I magiari in questione tendono a voler confondere le idee, tanto č vero che i pezzi proposti non presentano alcuna denominazione. Quando va bene, i brani sono indicati con i vari “part 1”, “part 2”, ecc… Ed anche al momento di dover indicare lo stile suonato non perdono occasione per disorientare. Nel loro sito si legge che suonano progressive in stile tribal-trance-ethno. E cosě, se alcuni media scrivono che la band sarebbe addirittura autrice, tra le altre cose, di urban folk music, i diretti interessati ci prendono gusto e finiscono per autodefinirsi autori di worldmusic ed addirittura ethno-trance-tribal-metal.
Avendo capito che questi ungheresi se la spassano da morire ed ogni volta si fanno quattro risate alla faccia di chi scrive, non si sbaglia se si cerca di inquadrarli in un contesto prog vicino tanto alla musica etnica quanto a quella fusion nel senso primario del termine, intendendo cioč la fusione tra il jazz ed una determinata cultura musicale autoctona. Se a questo nutrito retroterra, che deve parecchio alle culture mediorientali, ci aggiungiamo un sound decisamente psichedelico, viene spontaneo pensare agli Ozric Tentacles. In effetti, almeno in questo primo lavoro, i Korai Öröm sembrano una versione piů quieta ed essenziale del famoso gruppo inglese, mettendo momentaneamente da parte i sequencer e creando dei trip ipnotici basandosi essenzialmente su percussioni e fiati. Nella nutrita abbondanza di performers, oltre al batterista Viktor Csányi vi sono due percussionisti, János Jócsik e Zsolt Nádasdi, che insieme creano una base “tribale” su cui sviluppare le trame psichedeliche dei tre fiatisti: Miklós Paizs, Vilmos Vajdai ed il sassofonista Levente Lukács, a cui bisogna comunque aggiungere uno dei due chitarristi, Péter Takács, che si rivela anche trombettista e flautista. In queste sonoritŕ, al posto dei vari campionamenti, spicca il suono del didgeridoo, uno strumento a fiato aborigeno dalla forma irregolare, spesso suonato con la tecnica della respirazione circolare (mentre si soffia, contemporaneamente si fa entrare aria dal naso e si mantiene cosě un suono costante. Occorre tenere le gote gonfie come un otre e quindi sfruttare per un secondo la riserva d’aria accumulata).
Detto che le loro esibizioni live risultano sempre qualcosa di speciale, i brani che compongono questa prima prova sembrano essere il piů possibile conformi a quelli suonati in presa diretta. Si parte cosě con un primo brano che parte quieto e va fluendo lentamente verso un “fumoso” assolo di tromba, concludendo con la chitarra dell’altro guitar player, György Horváth, il quale suona in controtempo con il sottofondo del pianoforte di Emil Biljarski. Il secondo pezzo inizia ancora in chiave atmosferica, per poi “innervosirsi” con le voci di Tibor Vécsi, mentre le strade seguite dalle chitarre vengono scandite dal basso di Zoltán Kilián, finendo con la solita tromba Davisiana che fa da preludio ad un ottimo assolo chitarristico finale. I dieci minuti della terza track sono formati da una mistura psichedelica di controtempi e di tutto quanto contenuto in precedenza, ancora con assoli creativi e delle percussioni che alla fine (diciamolo chiaramente) se la tirano anche troppo a lungo. Passando velocemente per i suoni del quarto brano, arriviamo alla quinta parte, in cui sembra di essere in un effervescente bazar turco, tra percussioni, voci, fiati e quant’altro. Ancora una pausa riempitiva con la traccia numero sei, per termina con un pezzo che piacerŕ piů che altro agli amanti della worldmusic.
Si sarŕ capito che non č proprio una musica facile quella dei Korai Öröm, nonostante le apparenze. Il consiglio č di ascoltare questo lavoro un paio di volte, per apprezzarne sfumature che in un primo momento potrebbero sfuggire.


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Michele Merenda

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