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LITTLE TRAGEDIES Chinese songs part I Mals 2007 RUS

Come vi comportereste se qualcuno dei vostri amici vi chiedesse di esprimere una qualsiasi opinione su un film di cui avete visto solamente il primo tempo? Non avendo avuto la possibilità di assistere all'opera nella sua integrità, di certo non potreste negare di provare un certo imbarazzo perchè qualunque giudizio da voi espresso sarebbe inevitabilmente parziale e incompleto. Il complicato paragone mi serve per descrivervi l'analogo "disagio" che sto provando al momento della stesura di questa recensione: "Chinese Songs", il nuovo lavoro dei russi Little Tragedies, è infatti un album che è stato progettato e composto per svilupparsi secondo una struttura a doppio CD ma precise direttive dell'etichetta discografica Mals ne hanno imposto la pubblicazione in due episodi tra loro distinti. L'opera è stata spezzata (senza mezzi termini!) in due parti vendute separatamente nei negozi, prendendo in prestito dal mondo del cinema una recente tendenza, in base alla quale alcuni film sono presentati al botteghino in puntate indipendenti (volume 1 e volume 2), a distanza anche di parecchio tempo. Personalmente operazioni di questo tipo, dettate molto probabilmente da strategie di marketing, non riscuotono affatto il mio consenso dal momento che l’esperienza della fruizione di un'opera d'arte, qualunque essa sia, deve essere un processo intrinsecamente unitario, ai fini di una più completa e profonda comprensione della stessa.
Fatta questa doverosa premessa, mi sforzerò di immaginare Chinese Songs "prima parte" come un album a sé stante, facendo finta di ignorare il secondo capitolo che di qui a poco sarà pubblicato.

E’ trascorso appena un anno dall’uscita dello splendido "The Sixth Sense", personalmente uno dei migliori album del 2006, e la creatività inesauribile del Compositore/Tastierista/Cantante Gennady Ilin, fondatore ed elemento trascinatore del gruppo, ha sfornato con la consueta inesorabile puntualità un nuovo lavoro di dignitoso spessore. Non nego di aver atteso i Little Tragedies quasi al varco in questa loro ultima prova, pervaso dalla consapevolezza che a così breve distanza dalla precedente pubblicazione, sarebbe stata impresa assai ardua proporre un disco dello stesso livello qualitativo. Vi anticipo subito che a conti fatti l’album non raggiunge i fasti del suo illustre predecessore, ciononostante esso conferma la capacità e la costanza di Gennady nel realizzare opere stilisticamente ricercate e mai banali, rilevanti sia dal punto di vista compositivo che per i contenuti puramente concettuali. Nei sette brani di "Chinese Songs" ritroviamo molti degli elementi che hanno reso la formazione russa una delle realtà più interessanti del Prog Sinfonico contemporaneo: gli arrangiamenti eleganti ed elaborati, che rispecchiano un approccio mutuato dalla musica classica, l’importanza attribuita allo sviluppo dei temi musicali, l’alternanza nella composizione tra momenti di azione concitata, dove il virtuosismo incalzante delle tastiere è supportato da una sezione ritmica molto appariscente e muscolare, e più tranquilli ripiegamenti verso atmosfere riflessive, il caratteristico stile del cantato di Gennady, spesso sussurrato, che pur essendo considerato da qualcuno l’aspetto più fragile di questa proposta musicale, senza dubbio è uno marchi di fabbrica del gruppo. Fin qui vi ho elencato aspetti che già conoscevamo dagli album precedenti, in realtà non mancano le novità: prima fra tutte, stupisce l’abbandono di quella che è stata da sempre la fonte primaria d’ispirazione delle liriche della band, ovvero i componimenti poetici di Nicolai Gumilev. La poesia continua ad essere utilizzata come potente strumento di espressione di concetti e sentimenti. Questa volta però la scelta è caduta sui testi di antichissime poesie Cinesi (dall’ottavo al tredicesimo secolo D.C.): finalmente il booklet del cd riporta anche le traduzioni in inglese, permettendoci di apprezzare gli elementi narrativi dei vari brani (possibilità che ci era sempre stata preclusa in precedenza).
"Chinese Songs" è una raccolta eterogenea di storie accomunate da un preciso filo conduttore: il tema più ricorrente è un malinconico bilancio degli anni ormai passati, fatto da persone arrivate alle soglie della vecchiaia. Le speranze e i giorni felici della giovinezza hanno via via lasciato il passo alla disillusione, all’amara consapevolezza delle difficoltà dell’esistenza umana. L’unico possibilità di consolazione risiede nel contatto, diretto o contemplativo, con la Natura. Solo nella Natura l’Uomo percepisce il sentiero verso la realizzazione della propria felicità, fuggendo dai problemi della vita quotidiana. L’immagine della nostra condizione esistenziale è quella di un viandante solitario, senza una precisa destinazione, incapace di trovare un rifugio in questo mondo impersonale. Il significato dell’intero album è a mio avviso racchiuso nell’emblematico verso : ”Chi vive liberamente e decide di andare là dove lo spinge il suo desiderio, troverà la gioia lungo il cammino. Chi trascorre la sua vita nella casa della Ricchezza, è come se abitasse in una prigione.” Potete facilmente immaginare che testi così malinconici, ai limiti del pessimismo, siano stati tradotti in musica utilizzando atmosfere altrettanto sofferte. L’album è non a caso intriso di armonie basate principalmente su accordi in Modo Minore, che dipingono un quadro struggente e dominato da una profonda rassegnazione. La stessa impostazione degli arrangiamenti si discosta sensibilmente dalle soluzioni adottate nei lavori precedenti: siamo lontani sia dalle maestose costruzioni organistiche alla EL&P di "New Faust", sia dai gioiosi intrecci sonori di "The Sitxh Sense". Il taglio generale dell’opera è indirizzato ad una certa semplificazione strutturale. Pur rimanendo lo strumento principale, le tastiere non sono così dominanti come in passato, sovente non disdegnano di svolgere una funzione puramente decorativa, il virtuosismo pirotecnico è ridotto all’osso. Ne consegue un effetto globale meno orchestrale, l'approccio è più essenziale e diretto. La straripante personalità di Gennady sembra aver firmato un compromesso con i suoi compagni d'avventura, la chitarra elettrica e soprattutto il sassofono non sono relegati ad una funzione subalterna di assoli sporadici ma entrano nel vivo nella struttura dei pezzi: a questi strumenti sono spesso delegati l’esecuzione e il raddoppio dei temi più importanti.
La traccia di apertura dell’album, “I am Sitting In Front A Full Cup Not Drinking”, è paradigmatica di tutti gli aspetti che vi ho fin qui descritto: essa si sviluppa attorno ad un semplice ma struggente motivo intonato dalla chitarra elettrica e si distende lungo un tappeto di malinconici accordi al pianoforte che scandiscono il lento scorrere del tempo, accompagnando le amare riflessioni esistenziali del protagonista del testo. Il culmine del pathos è raggiunto nella sezione centrale, dove l’entrata della batteria e il dialogo tra Moog, chitarra e sassofono creano un’atmosfera profondamente drammatica. Il pezzo continua con la ripetizione del tema iniziale da parte del sassofono e si conclude in maniera un po’ improvvisa, lasciandoci una sensazione di incompiutezza. Il potente attacco della seconda traccia, “Absorbed In My Thoughts”, ci risveglia bruscamente da questo languido clima di meditazione catapultandoci in un universo fatto di indiavolate accelerazioni, cambi di ritmo repentini e travolgenti sequenze strumentali. Non siamo investiti da cascate di note come accadeva in "New Faust" ma le sonorità sono altrettanto robuste, soprattutto grazie ai riff di batteria che, tra mitragliate di tom e un uso abbondante della doppia cassa, hanno un approccio vicino al prog-metal. Il brano si snoda secondo una struttura circolare, aprendosi e chiudendosi con lo stesso tema musicale. La breve sequenza cantata, ancora una volta assai malinconica, spezza la frenetica evoluzione della partitura dandoci la possibilità di respirare e di lasciarci trascinare dall’onda delle emozioni. Da segnalare anche una notevole cavalcata strumentale in prossimità della conclusione, in cui un’armonia fatta di accordi di stampo Genesisiano (ricordano vagamente "Duke") dipinge una scena dai contorni epici. La terza traccia, “Sitting Carefree In The Shadow Of The Pavilion”, è il consueto pezzo meditativo accompagnato dal suono del clavicembalo che Gennady non manca di inserire in ogni suo lavoro, quasi con il preciso scopo di voler placare la tensione accumulata nei brani più movimentati. L’atmosfera rilassante, a tratti familiare, rievoca alcuni dei quadri musicali di "Porcelain Pavilion". Non si riscontrano tuttavia gli stessi slanci di creatività di quell’album e in generale questo brano perde il confronto con i suoi "fratelli maggiori" (“Neoromantic Fairytale” in "Return", “I am Tired to be Around People” in "New Faust", “On the Seashore” in "The Sixth Sense"). Anche la stessa scelta di utilizzare suoni sintetizzati per riprodurre strumenti tipicamente acustici come il flauto e una specie di arpa orientale non è particolarmente esaltante. L’ascolto prosegue con un brano di breve durata, di semplice fruizione, dal titolo “At The Window”. Fin dalle prime battute l’impressione che ricaviamo è quella di trovarci di fronte ad una sorta di tributo a Sting: la somiglianza dell’arrangiamento (accompagnamento di archi pizzicati, caratteristici ceselli di sax-soprano e così via) con quello del celebre pezzo “Englishman in New York” è più che evidente. Il cantato ricalca invece la linea melodica di un altro brano dei Little Tragedies, “Games” dall’album "Return", seppur su una metrica differente. Ben più ricca di contenuti è la traccia successiva “There Came An Unexpected Guest”, della durata di circa 10 minuti, il pezzo più signicativo dell’intero album. La commovente introduzione, dove una leggiadra melodia di chitarra è sostenuta da arpeggi di pianoforte dal sapore romantico, descrive la scena dell’arrivo a palazzo di un ospite inatteso, che più in là si rivelerà un amico di lunga data. È il momento quindi di un’ampia sezione prevalentemente strumentale, piena di soluzioni elaborate (c’era bisogno di dubitarlo?), che dimostra il grande affiatamento della band. La musica è intensa, in alcuni momenti addirittura coinvolgente. Gli articolati assoli del Moog non risolvono in un’inutile ostentazione di pura tecnica e soprattutto non difettano mai di buon gusto. Bellissimi il finale, caratterizzato da una cadenza che sembra uscita direttamente dalla colonna sonora di un film Western, e la chiusura al pianoforte, stilisticamente vicina alle ultime battute di “One for the Vine” dei Genesis. La traccia successiva, “Wanderer”, farà sicuramente storcere il naso agli amanti della musica di azione, caratterizzata cioè da un’alternanza continua di idee, ritmi e soluzioni stilistiche diverse. Si tratta di un brano assai atipico nella produzione dei Little Tragedies, notevolmente dilatato (a mio avviso eccessivamente lungo), che punta a trascinare l’ascoltatore in un’atmosfera di enigmatico raccoglimento. L’immobilità dell’arrangiamento, basato su un arpeggio continuo di chitarra e su pochi semplici accordi, è funzionale alla rappresentazione di un inerte paesaggio notturno, in cui ciascun elemento della Natura sembra magicamente fermarsi in attesa dell’arrivo del viandante. Il cantato di Gennady assume i connotati di una nenia ipnotica e contribuisce ad incrementare l’alone di mistero. Un piacevole intermezzo sinfonico alla Vangelis dà una ventata di vitalità ad un fin troppo statico clima di sottofondo.
L’epilogo del disco è una breve traccia che nel progetto originario in due CD avrebbe rappresentato un ponte tra le due parti dell’opera. “Do You Remember How We Said Goodbye” è un pezzo che celebra il valore dell’amicizia e ci colpisce per la sua nostalgica amarezza.

La prima puntata di Chinese Song è dunque un album che si colloca lungo la scia di quel percorso di analisi interiore dei sentimenti dell’animo umano, intrapreso per la prima volta in "The Sixth Sense", riuscendo a toccare sporadicamente picchi di intensità emotiva persino più elevati. Sono però completamente assenti le atmosfere festose e gli intermezzi ironici che avevano contribuito a creare nell’album precedente un’introspezione più approfondita delle passioni umane. Dal punto di vista compositivo ci troviamo di fronte come al solito ad un lavoro raffinato, ben arrangiato, suonato con la consueta maestria ma il fascino dei giorni passati si è leggermente affievolito. Il difetto principale, come vi ho già spiegato, risiede nell’intrinseca incompletezza di un’opera che per sua stessa natura è proiettata verso il suo naturale completamento. Consigliato ai fans del gruppo e a tutti gli amanti delle atmosfere crepuscolari.

 

Fulvio Ferrari

Collegamenti ad altre recensioni

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LITTLE TRAGEDIES Return 2005 
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