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Immaginate un “Vemod” degli Anekdoten o uno “Hybris” degli Änglagård o un “Ignis Fatuus” dei White Willow con testi assolutamente demenziali ed improponibili che parlino di merluzzo e plankton… come apparirebbero ai vostri occhi e alle vostre orecchie quei capolavori? Non oso immaginarlo. Sta di fatto che i nostri amici norvegesi, dagli pseudonimi inopportuni, che da anni ci deliziano e si prendono gioco di noi con le loro assurdità miste a musica di ottimo livello, questa volta hanno superato davvero se stessi, non in stupidità a dire il vero… ma dando alla luce una manciata di composizioni formalmente ineccepibili ma, come al solito, abbinate a testi a dir poco allucinanti. Questo può rappresentare un problema? Per me assolutamente no, anzi, con le rotelle fuori posto secondo me ci si diverte anche di più. Nel caso non la pensiate alla stessa maniera, consideratevi avvertiti: vi perdereste qualcosa di unico. Avevo paragonato il loro precedente album, lo splendido ed eccentrico “Happy Accident” (2017), ad un pranzo di Natale servito con posate di plastica che terminava con una gara di rutto libero. Sarà stato il tanto tempo a disposizione per il lock down, sarà forse giunta l’età del giudizio, non so, ma provate a decontestualizzare la musica rispetto ai testi e scoprirete un’opera (l’undicesima in studio della loro discografia) ben ponderata, suonata alla perfezione, ricca di gusto e di trovate fantasiose, spigliata, movimentata, aulica quando serve e toccante nei momenti di pathos. I testi sono assolutamente assurdi, come anticipato, e contrastano con la forma impeccabile di un disco ben prodotto (e si sente in tal senso il contributo di Rhys Marsh) e concepito. Mi rendo conto che potreste rimanerne disorientati ma ciò può portare effettivamente ad un livello di lettura ulteriore di un album che prima di tutto vuole intrattenere e divertire, in barba a tutti i musicisti fin troppo seriosi che popolano il nostro universo Prog. A dividersi il ruolo di cantanti solisti sono come al solito Hebbe Santos, voce femminile aggraziata che nulla ha da invidiare ad un’artista come Tirill Mohn, e Pornographic Johnson che ricorda molto Ian Anderson per timbrica e teatralità. Il corredo strumentale è ricco ed è gestito da una serie di musicisti che non si sa neanche bene chi siano perché, oltre ad usare pseudonimi, si divertono anche a cambiarli di quando in quando, cercando peraltro di apparire il più possibile repellenti. Abbiamo quindi Bödd Lindfors (nota anche come Bøddus Lut) al flauto, Black-Metal Ekker al violino, Lord Lusk alle tastiere (col gruppo soltanto a partire dal precedente album come sostituto del veterano Sleazy Teigen), l’ultimissimo acquisto Cunt Basie al trombone, Shabe Fack (o meglio Fist-Anal) alle chitarre e alla batteria ed Eric The Awful al basso. L’incipit possiede un mood addirittura sacrale: “Dental Breackdown”, questo è il beffardo titolo del pezzo di apertura, ci accoglie con un organo solenne e orchestrazioni vellutate, conducendoci in modo maestoso nel cuore di un brano incredibilmente dinamico, dominato da oscuri sentori folk di ispirazione nordica e caratterizzato da continui passaggi di ritmo e situazione. Gli intrecci elettrici e acustici, le colate di Mellotron e le preziose tastiere vintage, i cori cantabili non impediscono al gruppo di avvalersi del solito ed impertinente umorismo che fa sì che un pezzo così affascinante e complesso si trasformi all’improvviso in una sorta di tango bislacco su cui incombe la minacciosa fresa di un dentista. Ecco quindi che la musica deraglia lungo sentieri inaspettati con Yezda Urfa, King Crimson e Jethro Tull a fare capolino fra i tanti riferimenti arditamente accostati gli uni agli altri, su cui luccica una bella spolverata di inebriante psichedelia. Un pollo schizofrenico apre “Lady Dung”, una ballad ombrosa e soave con splendenti arpeggi acustici di chitarra e frammenti di musica antica. Il tappeto corposo di synth ricorda i White Willow con un fiddle traballante che si sforza di creare atmosfere strappalacrime, con un effetto finale volutamente comico e di sicuro intrattenimento. Non mancano folli escursioni in stile Gentle Giant e momenti strumentali che nel complesso ricordano la maestria dei Wobbler nel mettere insieme certi ingredienti. Passiamo poi alla acida e grottesca “Rage for Boredom”, profondamente Crimsoniana per molti versi, con i suoi ritmi spezzati e le soluzioni insolite. Ci lasciamo sedurre da “Frill”, oscura e incombente, trainata da fiati potenti che lottano con una chitarra Frippiana. A questi slanci decisi si contrappongono arpeggi acustici e flauto leggiadri che fanno da sfondo al cantato elegiaco, alla ricerca questa volta di nuove atmosfere melodrammatiche e poetiche. “Jaundice Sailor”, al di là del buffo titolo, si presenta a noi come una ballad dalle delicate tonalità acustiche su cui imperversano sferzate elettriche che ne sovvertono repentinamente gli umori. La cabarettistica “In Search of Competance” sembra danzare su ritmi ubriachi mentre “Still... You Turn Me Off” ci offre frangranze psichedeliche e raptus in stile RIO. Nella conclusiva “Rimming the Ancient Mariner” si mescolano ancora in modo fantasioso tantissimi elementi, con ruvidità ed eleganza, con continui sbalzi stilistici che non vi faranno mai correre il più remoto rischio di annoiarvi. Senza tediarvi oltre con disperati tentativi di trasformare in parola le tante, troppe, impressioni che scaturiscono da questo ascolto, aggiungo soltanto che un album così è proprio quello che ci voleva. Mi aspetto quindi che vi affrettiate a curiosare e tentare un approccio con questo gruppo… come si conviene a degli ascoltatori preparati e curiosi.
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