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RESISTOR Resistor autoprod. 2008 USA

Nonostante abbia una carriera piuttosto nutrita alle spalle, Steve Unruh non è molto noto al mercato progressive. Tra le sue passate esperienze, c’è del jazz, del folk acustico, del progressive, qualche lampo con lievi tendenze prog metal e tutto quasi sempre in solitaria: composizione lirica e musicale, arrangiamento, esecuzione, canto, produzione, ecc. ecc.
In questa nuova veste, capitano di un ottimo quartetto, propone un progressive che ha, in effetti, spunti attribuibili a tutto quanto sopra elencato. E’ un esordio piuttosto interessante, vuoi perché propone elementi ben miscelati e ben proposti, vuoi perché dimostra grandi capacità sia a livello di songwriting, sia per l’esecuzione sempre molto centrata. Quello che lascia un po’ di perplessità è uno spirito un citazionistico molto ricorrente, che salta fuori ad esempio nell’assolo di chitarra dell’aggressiva e a tratti rushiana opener “Reincarnation”, che ad un certo punto sembra voler dimostrare come gli Eagles copiarono “Hotel California” da “We Used To Know” dei Jethro Tull, essendo, l’assolo, uguale a quello di entrambi i brani. Ancora i Tull citati, non certo tra le righe, nella simpatica e dinamica “Jethro Fran”, dove Unruh dà prova di saperci fare veramente bene, con il flauto traverso. Vero che poi c’è la notevolissima “Restless Angel”, che scorre per una dozzina di minuti tra delicati fraseggi chitarristici e che, nella parte centrale, si spinge a qualche spunto hard prog, forse in lieve sapore prog metal, ma lo sbotto sembra giustificato da un testo che spinge proprio in quella direzione. La voce è forse l’elemento che meglio salta fuori, forte e melodica insieme, molto espressiva e che nei cambi della metrica e nei sobbalzi tra alti e bassi si trova sempre a proprio agio. Non particolarmente riuscito il monocorde andazzo terzinato di “Fair To Say”, sicuramente tirato un po’ alle lunghe. Nella prosecuzione del disco, ancora spunti hard a metà tra Rush e Jethro o momenti, decisamente migliori e di notevole sviluppo progressivo come nella conclusiva “Waiting To Believer” il cui crescendo, unito all’atmosfera tesa e drammatica ne fanno un pezzo decisamente centrato. Un disco globalmente sufficiente, che a fronte della bravura degli elementi e una scrittura ad ampio raggio, perde in una certa carenza di personalità e trova un punto parzialmente negativo nei molti deja vu. Meritano comunque di attendere una seconda prova.


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Roberto Vanali

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