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STEVE THORNE Emotional creatures Part One GEP 2005 UK

Per la casa discografica di IQ e Jadis esordisce in veste solistica il cantante, chitarrista, polistrumentista e compositore Steve Thorne. L’etichetta ci dice già qualcosa sulle mire musicali del prodotto, fresco fresco di stampa: progressive un po’ new e un po’ old, ma non manca qualche bell’accenno folk. La list delle collaborazioni è di grande rilievo. Spiccano il monumentale Tony Levin, le tastiere di Geoff Downes, il drummer Nick D’Virgilio. Ancora alle tastiere e, come vedremo in un inaspettato flauto, il compagno di etichetta Martin Orford e, sempre “grattato” agli IQ prima dell’abbandono e del passaggio a miglior (o peggior) vita nel nord England, Paul Cook. Musicalmente pare sia nato tutto da un brano fiume, un po’ come accadde ai Genesis dei primi anni ’70 con quel “Movement” dal quale pescarono varie tracce nei successivi anni. Qui il brano genitore ha il titolo eloquente di “Sandheads” i cui resti dovrebbero finire nella “Part two” .
I brani spaziano egregiamente tra il prog più sano e old di stampo Genesis e Jethro, con frammenti più folK a tratti quasi celtico, con reminiscenze che portano a certe cose di Fish, ma anche ai Marillion del primo Hogarth.
Fatto il preambolo passiamo al dettaglio dei brani. Molto morbido e classicamente ritmico il brano di apertura, intenso lascia lo spazio in breve tempo a “God Bless America” ondeggiante sul flauto di Orford, che bene si intreccia alle tastiere e al poco usuale mandolino di Arnie Cottrell. “Well Outta That” e “Ten Years” sanno molto di “Season’s End”, ma quel tocco folk in più fa la differenza e le rende piacevoli oltremodo. Unico brano un po’ deludente è la ballata “Julia” struggente in apparenza, avrebbe potuto essere condensata di qualche minuto. Parte alla grande “Therapy”, forse il miglior brano del CD. L’attacco di tastiere è in tradizione IQ, ma i rimandi – e scusate se è poco – mi hanno riportato ad alcune grandi cose di Steve Hackett solista. Analogo discorso per “Every Second Counts” che consegna un Tony Levin allo Stick Bass da brivido. Quasi evanescente e giocata sui temi vocali “Tumbleweeds”, va via per aprire all’altro grande brano “Gone” dinamico grazie alla la sezione ritmica Jadis non tradis
ce e non lascia spazio ad amare sorprese. “Goodbye” buon brano di chiusura, che mi auguro non sia profetico, lascia un con una patina di melanconia. Struggente finale per un album che mi sento di consigliare soprattutto agli amanti del prog ’80, ma con la consapevolezza che i rimandi al prima e al dopo possano piacere un po’ a tutti anche perché, nonostante gli inevitabili ricordi, resta una indiscussa originalità del prodotto finale. Globalmente niente virtuose galoppate, ma grande tecnica prog di ogni ospite e, ovviamente, del padrone di casa.

 

Roberto Vanali

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