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STEVE THORNE Island of the imbeciles autoprod. 2016 UK

Al quinto album solista, il cantante, polistrumentista e compositore britannico Steve Thorne conferma un indirizzo stilistico che lo vede addentrarsi in un progressive rock soft, dai toni sinfonici e romantici che spesso vanno a mescolarsi con il pop di classe. “Island of the imbeciles” pur non essendo un vero e proprio concept, vede le dieci canzoni che lo compongono seguire dei fili comuni, spingendosi verso diverse problematiche legate alla vita moderna e dell’influenza che queste hanno sulla spiritualità e la salute delle persone. Per proporci questi temi, Thorne è in alcune occasioni impegnato a suonare tutti gli strumenti, ma ci sono diversi brani in cui ad accompagnarlo ci sono altri musicisti. I nomi più noti ai nostri lettori sono sicuramente quelli di Tony Levin (al basso) e Nick D’ Virigilio (batteria), ma anche gli altri collaboratori Robin Armstrong (chitarra) e James Maclaren fanno bella figura con i loro interventi. Venendo ai contenuti diciamo che il cd dura cinquanta minuti e le tracce mantengono una omogeneità molto forte. Thorne cerca sempre di mantenere una certa raffinatezza di base, attraverso melodie dirette, ma incisive. I momenti solistici più brillanti sono quelli chitarristici, mentre quando vanno in primo piano le tastiere e il piano si gioca maggiormente sull’atmosfera (solo in rare occasioni si avverte invece qualche tocco classicheggiante). Le strutture non sono particolarmente complesse, raramente le composizioni si prolungano più del dovuto e le parti vocali, con un Thorne decisamente ispirato, contribuiscono fortemente a dare quel senso di immediatezza e quel feeling che da sempre caratterizzano la proposta del musicista. E’ un po’ come se i Camel flirtassero con gli IQ recenti e cercassero, al contempo, di attirare con melodie accattivanti, tanto per dare un’idea dei contenuti sonori. Difficile, alla fine, indicare qualche pezzo che ha impressionato più degli altri, visto che oltre a mantenere l’omogeneità stilistica di cui parlavamo, riescono anche ad allinearsi tutti su standard qualitativi simili (solo la conclusiva “They are flesh” si distacca lievemente, con le sue caratteristiche da ballad semiacustica). E, come nei precedenti lavori, pur non toccando chissà quali picchi, possiamo tranquillamente affermare che il valore del disco è soddisfacente. Merito delle capacità di Thorne di abbinare l’energia del new-prog ad una leggerezza gradevole negli spunti melodici e di recuperare un romanticismo targato anni ’70 e trasportarlo con successo ai giorni nostri. Non sarà agli stessi livelli delle proposte migliore che circolano oggi e sicuramente non attirerà chi nel prog cerca trame particolarmente articolate, ma Steve Thorne continua con coerenza per la sua strada e chi lo ha già seguito negli anni recenti avrà sicuramente piacere ad ascoltare anche questo nuovo album.



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Peppe Di Spirito

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