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SPOCK'S BEARD The oblivion particle Inside Out 2015 USA

L’abbandono di Nick D’Virgilio (voce e batterista) e l’ingresso in pianta stabile di Jimmy Keegan (già batterista on stage della band) e del cantante (e chitarrista) Ted Leonard (dagli Enchant) ha aperto una terza fase nella carriera ormai ventennale degli Spock’s Beard. Il primo album con la nuova line-up , “Brief nocturnes…”, ha come al solito diviso gli ascoltatori: c’è chi continua ad apprezzarli od anche a preferirli alle versioni precedenti per l’impatto più heavy delle composizioni (soprattutto rispetto al periodo con Neal Morse…), e c’è chi li snobba (anche ) “a prescindere” e per loro la band ha cessato di “esistere” forse già con il terzo o quarto album (se non prima…). Comunque sia “Brief nocturnes…” conteneva ottimi brani e, soprattutto, mostrava una band già ben amalgamata con i due nuovi membri subito ben presenti anche in fase compositiva. Lecita, quindi, la curiosità per il nuovo “The oblivion particle”, dodicesimo album della formazione statunitense (traguardo di tutto rispetto per chi è attivo dalla metà degli anni ’90 e non nei ’70 quando i gruppi sfornavano un lavoro all’anno…).
Come sempre nei lavori dei “Beard” non viene lesinato il minutaggio che nello specifico supera i 70 minuti (compresi quelli dedicati ad “Iron man”, cover dei Black Sabbath!!) con l’inevitabile rischio di qualche momento poco significativo. Non è il caso di “Tides of time”, tipica composizione à la Beard con Hammond e synth vari in evidenza, ritmica sostenuta, cori a profusione e, (quasi ) novità, un intermezzo acustico ben congegnato. “Minion” si apre con un breve coro “a cappella”, poi la miccia si accende con i classici intarsi strumentali a supportare la voce di Leonard. Non mancano, anche in questo brano, dei momenti più soffusi, dove Okumoto dimostra di sapere usare bene anche il fioretto (il pianoforte) e non solo la sciabola (lo Hammond). La scelta di brani più concisi (ma non corti…) evita le lungaggini a cui il gruppo ci ha, talvolta, abituato, agevolando così l’ascolto e non inficiando certo il risultato finale. E’ la volta poi di una piacevole “soft-song” di Leonard, “Hell’s not enough” che si indurisce nel finale con le consuete digressioni di Alan Morse e dello stesso Okumoto, ben assistiti dalla macchina ritmica di Meros e Keegan. “Bennett built a time machine” farà forse storcere un po’ il naso per la sua semplicità ma è comunque godibile e facile da ricordare.
Purtroppo non mancano poi dei brani da “matita rossa”. Decisamente sfocata “Get out while you can”, banale persino nell’insipido ritornello, ma che per fortuna ha il pregio di durare neanche 5 minuti. Ispirazione ai minimi termini anche per “A better way to fly”, davvero sfilacciata e svogliata. Il “Trittico delle… mestizie” si chiude con “The center line” appena più accettabile dei due brani precedenti (l’intro e l’outro di pianoforte, un bel “solo” del solito Okumoto) ma lontana dall’appagarci completamente. Non potevano, dunque, che salire le quotazioni con “To be free again” (il pezzo più lungo dell’album… poco più di 10 minuti) che beneficia di un bel lavoro di Meros e Keegan nella sua parte introduttiva, di qualche notevole inserimento della chitarra di Morse (che per l’occasione nell’album ha ampliato il suo parco strumenti con il sitar elettrico, il mandolino ed altro ancora), dell’opera di coesione delle tastiere e di un’ottima interpretazione di Leonard. Buon pezzo ma lontano dal top della produzione dei 5 americani. “Disappear”, che vede un cameo di David Ragsdale (violinista dei Kansas), sa un po’ di occasione persa non “sfruttando” del tutto l’illustre ospite, pur mantenendo un buon mood. Nulla aggiunge all’economia dell’album, ovviamente, la cover di “Iron man” dei Black Sabbath se non dire che è cantata da Meros, che vede D’Virgilio alla batteria, Leonard alla chitarra e l’assenza di Alan Morse in fase di registrazione.
Un album contraddittorio “The oblivion particle”, con buone sensazioni (i primi 4 brani e la mini-suite) ed altrettanta delusione (le tre tracce centrali ed in parte “Disappear”) che ci fanno rimpiangere, e non poco, “Brief nocturnes…”. Sufficienza di stima, ma ci aspettavamo molto di più, inutile negarlo.



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Valentino Butti

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