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VESPERO Droga RAIG 2013 RUS

Passa un anno dal precedente “Subkraut: u-boats willkommen hier”, quadro strumentale simil-futurista con i suoi scheletri di balena avvolti da corpi di sommergibili tedeschi in copertina, e il kraut intrapreso dichiaratamente da un paio d’album sembra in buona parte lasciato per strada. C’è chi parla di un album sempre psichedelico, sì, ma più orientato verso gli stilemi prog. Mah, il gruppo russo dei fratelli Ivan ed Arkady Fedotov (batteria e basso), del chitarrista Alexander Kuzvolev e del tastierista Alexei Klabukov continua – al di là di tutto – ad essere uno dei migliori esempi di space-rock in ambito internazionale e stavolta, oltre ai soliti Ozric Tentacles, viene da guardare anche agli americani Djam Karet, con le loro lunghe introduzioni seguite da entusiasmanti porzioni soliste. Le stravaganze kraut non vengono certo accantonate del tutto, ma ciò che si coglie subito è proprio questa propensione a creare e a far “montare” per lungo tempo le parti iniziali, traendo spunto dalle immagini proiettate nella mente dai panorami della propria terra. Forse vuole alludere proprio a questo il titolo (in italiano!), cioè alle visioni alterate di ciò che sta attorno.
A proposito di ciò, i dieci minuti dell’iniziale ”Steppe” partono con una lunga, lunghissima intro, dove si contempla per dei momenti interminabili una distesa innevata che si espande a perdita d’occhio, lasciando un senso di desolato scoramento. Finché comincia di colpo il viaggio nella propria mente di cui si parlava prima; un trip quieto e vibrante allo stesso tempo, dove i passaggi di batteria si fanno sempre più articolati e la chitarra sempre più dura, con un finale che forse apre i cancelli a qualche sperduto reame, dopo tanto vagare al gelo. E anche “Maui” non è da meno, il cui inizio è però molto più vivace, con le note di basso che vanno su e giù, non fermandosi nemmeno quando entra la chitarra a fare la voce grossa e i synth ascendono verso mondi lisergici. Dopo quattro minuti e mezzo il drumming si fa molto complesso (altro elemento fondamentale di tutto l’album), cambiano i ritmi ed entra il violoncello di Vladimir Belov che si fonde con tutti gli altri strumenti. Altro giro ritmico intricato con “Red Pitfalls”, preludio dell’equilibrio precario basato su uno sfogo chitarristico che cresce costantemente di intensità, come una specie di Carlos Santana mistico spogliato del suo essere latino. Questo porta poi ad una contemplazione quieta e vigile allo stesso tempo, col solito violoncello che traccia disegni nel turbinio leggero della batteria. “Oboo”, invece, torna alle soluzioni passate, soprattutto a quelle del precedente album, tracciando linee misteriose con i sintetizzatori ed il flauto di Alexey Esin. Un lungo gioco percussivo lascia poi il passo alle note acute e amplificate della chitarra, come una specie di canto dei cetacei proiettato verso il cosmo.
Parte “Thymus” ed il gruppo si lancia in nove minuti che attaccano molto veloci, poi rallentano e man mano finiscono per comprimersi su loro stessi. Ma dopo quattro minuti la corsa cinetica riprende rapidamente, dettata stavolta dalle tastiere. “Halo” sembra invece rompere con tutto, vista anche la luce (parzialmente più calda) che sembra irradiare. Accattivante, con i soliti rimandi di quella particolare area che fa da confine tra l’Occidente ed il Medio Oriente, che però si trascina un po’ troppo per le lunghe. Un senso di stanchezza, a dire il vero, che l’ascoltatore potrebbe avvertire nella seguente “Marine”, anche se i minuti finali lasciano col fiato sospeso. “Frozen Lilies (Melt in Heaven)” rischia di ripetere le medesime sensazioni di appannamento poco sopra descritte, nonostante a metà brano si tenti letteralmente di scavare per tirar fuori emozioni tenute nascoste. La conclusiva title-track, invece, sembra tutta una lunga rarefazione, fino al quinto minuto, con un andamento che si va man mano destando e porta all’evocazione di un sax, sempre ad opera di Esin, che finisce per dettare definitivamente la strada.
Dall’analisi approfondita dei brani, si sarà capito che i Vespero hanno oramai trovato la formula giusta e sarà quindi difficile pubblicare un album con passi strumentali oggettivamente brutti. Si può quindi dire che i nostri hanno ancora una volta fatto centro, anche se nove composizioni di settantatré minuti complessivi stavolta sembrano un po’ troppe, soprattutto se si tratta di pezzi che come detto e ridetto presentano delle prime sezioni tanto lunghe. Il rischio di strafare nell’autocompiacimento purtroppo c’è, anche se “Droga” è sicuramente un bell’album. Anche stavolta, è possibile usufruire di una versione a tiratura limitata, con l’aggiunta di un secondo CD, “Liventures, etc”. Trattasi di una raccolta di otto brani live, tra rivisitazioni esclusive, cover e brani inediti. Il dischetto, purtroppo, non è disponibile separatamente.


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Michele Merenda

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