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GÖSTA BERLINGS SAGA Et ex Inside Out 2018 SVE

Le cose appaiono diverse in base alla prospettiva da cui le si guarda e la musica non fa eccezione a questa regola. Capita così che i Gösta Berlings Saga abbiano deciso di affidare la pubblicazione del loro nuovo e quinto album in studio ad una etichetta un po’ più commerciale, passatemi il termine, rispetto a quelle di cui si erano serviti in passato ed ecco che si aprono nuove opportunità e nuovi punti di vista, inclusi quelli dei neofiti del gruppo che si ritrovano fra le mani questo “Et Ex” ignorando tutto ciò che viene prima e che hanno in alcuni casi un background di ascolto improntato al prog metal. Devo dire che è stato divertente leggere le recensioni di vari siti del settore, intendo quelli “metallari”, che hanno dato forza a tutta la loro fantasia per descrivere una musica per loro insolita, offrendo talvolta paragoni inediti rispetto a quelli a cui siamo mediamente abituati tutti noi che abbiamo seguito questa band fin dai suoi esordi. Nel 2006 un rustico e promettente “Tid är ljud” usciva all’epoca per una rampante quanto underground etichetta locale, la Transubstans. Lo stile era più o meno in linea con lo spirito di quella casa discografica ed i principali riferimenti erano nella sfera del progg con una forte impronta folk e psichedelica ed una attitudine da cantina. Devo dire che ogni disco dei Gösta Berlings Saga ha delle proprie peculiarità ed il gruppo non si fa problemi a sperimentare nuove strade ed è così che il loro terzo disco, “Glue Works” (2011), uscito per un’etichetta più improntata al jazz rock e alla sperimentazione, appare forse come la loro opera più complessa e sofisticata. La band è consapevole delle nuove opportunità che possono aprirsi con una casa madre come la Inside Out e non lo nasconde, basta leggere cosa scrive in occasione dell’annuncio di questo matrimonio proprio sul sito dell’etichetta che sicuramente è in grado di portare la loro musica più lontano offrendola ad una platea più ampia di ascoltatori. Questo è ciò che sta succedendo in effetti ed è innegabile che il nuovo album sia stato pensato con questo intento.
Premetto subito, anche se non credo sia necessario, che non si tratta di musica commerciale o scontata né di cose che sfociano in alcun modo nel metal, anche se lo stile si è semplificato in una ricetta più snella, essenziale e meglio assimilabile. Il colore nero della copertina e la lisca di pesce sono emblematiche di questa nuova metamorfosi. Già parlandovi del precedente lavoro, “Sersophane” (2016), ne avevo descritto la musica come qualcosa che stesse perdendo i suoi colori, divenendo povera di particolari. Ecco, diciamo che quel processo di decolorazione è giunto con “Et Ex” al suo culmine e le nuove canzoni, 8 in totale per circa 47 minuti di durata, hanno un sound molto essenziale con arrangiamenti nient’affatto stratificati ed un impatto molto immediato. Aggiungete a tutto questo anche il fatto non trascurabile che il gruppo ha rigenerato il suo organico del 50%, variando un assetto che persisteva stabilmente almeno dal 2009 con l’arrivo di Gabriel Tapper al basso e al Taurus Pedal e del chitarrista Rasmus Booberg (che suona anche il clarinetto e fornisce synth addizionali).
Ma addentriamoci meglio in questo disco, che credo farà parlare di sé, in un modo o nell’altro. Il nostro quartetto sceglie accuratamente fra le gradazioni di suoni che è in grado di sintetizzare e le centellina con gusto, grazie soprattutto alla maestria del tastierista David Lundberg che ama molto le tonalità vintage, non trascurando quelle classiche dell’amato Mellotron e del Fender Rhodes, ma preferendo talvolta suoni dai riflessi elettronici e sofisticati. Paradigmatica di questa visione è proprio la breve traccia di apertura, “Veras tema”, così minimale e lineare, con i suoi loop che si ripetono monotoni, le suggestioni elettroniche, le melodie precise che non si diramano seguendo schemi semplici ma molto penetranti. Ma non è in questi tre minuti che il gruppo inizia a fare sul serio. Parte “The Shortcomings of Efficiency” e il paesaggio si fa tetro e le suggestioni, dipinte con tinte monocromatiche e con poche note persistenti, potrebbero essere quelle degli Anna Själv Tredje. Ecco che si vola su una base ritmica leggera, rapida e precisa, scandita dal basso regolare e ben presente con le melodie che vengono gradualmente rilasciate dalla chitarra di Booberg che si inserisce con garbo in una trama musicale fatta di ripetizioni e spirali che si propaga secondo schemi che non sono nuovi a chi conosce il gruppo. Talvolta si indugia a lungo su singoli suoni e singoli note ed è proprio così che inizia “Square”. Il Mellotron è sbattuto sullo sfondo, appena udibile, come uno spettro e in primo piano campeggia un disegno semplice e fatto di pochi elementi che si ripete lentamente e che prelude ad un brano dagli ammiccamenti pop, con tanto di batteria elettronica, regolare e scandita, e contaminazioni elettroniche e kraut. “Over and Out” presenta dei vaghi riferimenti folk ma l’eccessiva modularità della musica, lo stagnare di certe soluzioni sonore rende tutto forse un po’ troppo scontato e già a questo punto arriva un po’ di stanchezza nell’ascolto. Temi gotici e un po’ da colonna sonora noir, e penso agli Anima Morte, si affacciano alla mia mente con “Artefacts”, la melodia è la stessa dall’inizio alla fine, seppure con diverse variazioni ed il finale è qualcosa di estremamente rarefatto, col piano che riluce avido e solitario nel buio e scivola via nel vuoto portandosi dietro quel che rimane del brano. Forse “Capercaille Lammergeyer Cassowary & Repeat” è fra gli episodi più memorabili dell’opera, se non altro per la scelta di sonorità più crude e contrastate e per il tentativo di sollecitare maggiormente un inconscio emotivo nel’ascoltatore che rischia sinceramente alla lunga di intorpidirsi troppo. Tralasciando il minuto acustico di “Brus Från Stan”, giungerei alla fine col pezzo più esteso, “Fundament”, che si ferma poco prima di raggiungere i 10 minuti e che idealmente potremmo dividere in una parte più energica e in una più rarefatta. In qualsiasi modo la vogliamo girare non troveremo nulla di nuovo sotto il sole ed ecco riferimenti Crimsoniani che vengono calati in un costrutto modulare ed essenziale, semplice da decifrare in definitiva e non nuovo di contenuti. Una produzione impeccabile mette in risalto i suoni di questo album che rappresentano forse l’aspetto più interessante e lodevole di un'opera diretta a suo modo intrigante ma che si dimostra forse come un surrogato digeribile e gustoso di ciò che i Gösta Berlings Saga hanno saputo meglio incarnare in passato. Ma a voi la prova.



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Jessica Attene

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