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DAVID CROSS / PETER BANKS Crossover Noisy Records 2020 UK

Nell’immaginario del rock degli anni d’oro, tra collaborazioni, rivalità, festival, eventi e tanto altro ci si immagina che tutti i musicisti erano in continuo contatto e si conoscevano. Sorprende un po’, quindi, che il primo incontro tra David Cross, violinista che ha legato il suo nome ai King Crimson del 1973-74, e Peter Banks, primo chitarrista degli Yes, sia avvenuto solo nel 2006. L’intesa fu immediata, anche se si è dovuto aspettare il 10 agosto del 2010 perché insieme iniziassero a registrare qualcosa, con delle improvvisazioni derivanti da sessions pomeridiane. Con la morte di Peter nel 2013, David non se l’è sentita di rimettere subito mano a queste registrazioni e solo di recente, riascoltandole, ha capito che c’era il potenziale per completare un album. Con l’aiuto del produttore Tony Lowe e di alcuni musicisti del giro prog, possibilmente legati a King Crimson e Yes, ci ha lavorato su ed il risultato è questo “Crossover”.
“Rock to a hard place” è un incipit di nove minuti intrigante, energico al punto giusto, con squarci di luce aperti dalla magia del violino di Cross ed una seconda parte più d’atmosfera e sperimentale. Il vigore di Jeremy Stacey (dei King Crimson) dietro le pelli ed un sorprendente raffinato keyboards-playing di Geoff Downes fanno il resto. Senza dubbio un ottimo inizio. Segue “Upshift”, in cui troviamo Jay Schellen alla batteria, ma soprattutto Tony Kaye all’organo Hammond, Bully Sherwood al basso e Oliver Wakeman alle tastiere. Cosa aspettarsi dalla coppia Cross-Banks con una formazione così? Qualcosa di vicino agli Yes? Sì e no… Il basso un po’ à la Squire c’è, ma sembra che i musicisti non abbiano voglia di osare e il brano si mantiene uno strumentale dai ritmi pacati che si prolunga fin troppo e che risulta un po’ anonimo. Va meglio con “The smile frequency” che ci porta in ambito new-age, di quella buona (merito anche degli interventi di Randy Raine-Reusch con una marea di strumenti esotici) e con “The work within”, in cui il violino e gli effetti sonori di Andy Jackson spingono verso uno sound ambient e stravagante. E dopo una “Missing time”, ancora giocata sull’atmosfera, che mostra bene il tipo di improvvisazioni registrate da Cross e Banks, ecco “Plasma drive”, uno dei pezzi portanti dell’album, con quell’inizio lento e un po’ minaccioso ed un crescendo infuocato che spinge verso tinte cremisi, anche per merito del drumming di Pat Mastelotto. E siamo ancora in territori King Crimson con la bella “Laughing strange”, che per l’andamento può ricordare certe cose non troppo dure del 1973-74, come “Exiles”, tanto per intenderci, anche se il ruggito di Banks che affianca l’eleganza di Cross si avverte bene. In conclusione troviamo la title-track, dove emerge più che altrove la voglia di libertà e la voglia di esplorare che hanno caratterizzato quelle jam del 2010, in cui i musicisti andavano ancora alla ricerca delle potenzialità dei loro strumenti dopo decenni di esperienza, sperimentando con suoni e tecnologia. Una traccia sicuramente non immediata, ma di sicuro molto interessante.
Con un’analisi finale bisogna ammettere che il lavoro si sviluppa tra alti e bassi, con una preponderanza dei primi. Diciamo che l’impressione è che non sempre gli ospiti invitati sono riusciti a compenetrare il lavoro di base che avevano fatto Cross e Jackson, mentre proprio ai due musicisti da cui è partito tutto si devono gli interventi più ispirati del disco.



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Peppe Di Spirito

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