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TRION |
Funfair fantasy |
Oskar Productions |
2013 |
NL |
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I Trion, ricordiamolo, sono una specie di supergruppo che unisce membri di Flamborough Head (il tastierista Edo Spanninga ed il bassista e chitarrista Eddie Mulder) ed Odyssice (il batterista Menno Boomsma). Il nome, un incrocio fra la parola “trio” e Mellotron, sintetizza perfettamente l’essenza del gruppo: un insieme di tre persone che compone musica strumentale dominata da sample di Mellotron. Dell’amato strumento sono stati rubati i registri più disparati (flauto, oboe, archi, organo, violoncello…) che vengono utilizzati per creare momenti tastieristici evocativi e dal sapore vintage. Questa esperienza, nata per gioco da un’idea del tastierista, giunge ora al suo terzo capitolo (l’esordio “Tortoise” risale al 2003 mentre il successivo “Pilgrim” risale al 2007) riproponendo una formula ormai consolidata. Ritroviamo così un insieme di brani strumentali (dieci in totale) in cui colpisce in primo luogo la grande varietà di colorazioni tastieristiche. Lo sviluppo dei brani è però lento, le melodie sono tenui, ed i suoni di Mellotron, sebbene siano molto vari, non si accavallano ne’ sovrappongono, in modo tale che le note riescano ad allungarsi come se seguissero il ritmo di un lento respiro, con le sue pause ed i suoi cicli regolari. L’ispirazione di queste tracce sembra provenire dai Camel in primo luogo e in parte anche dai Genesis, senza però tralasciare le esperienze con i gruppi madre, e mi riferisco soprattutto ai Flamborough Head, che peraltro non vengono eguagliati da un album in cui rilucono bei momenti ma che in sostanza appare un po’ pigro e poco dinamico. Le accelerazioni sono una vera rarità e la sezione ritmica non aiuta assolutamente a dare il giusto movimento. La batteria in particolare è spesso poco più di un metronomo ed un approccio più libero avrebbe forse fatto la differenza. La chitarra interviene con qualche breve assolo limpido e misurato o con arpeggi ma guai ad alzare troppo la testa: la parte tastieristica non deve mai perdere potere! Mi è davvero difficile individuare dei momenti dominanti dal momento che l’album si presenta piuttosto omogeneo e ciò contribuisce ovviamente ad accrescere quel senso generale di piattezza che diffusamente si respira. Forse, dovendo proprio scegliere, soffermerei l’attenzione sulla conclusiva “Secret Matter”, con il drumming questa volta leggero ed elegante e la chitarra dal tocco lievemente jazzy, oppure sulla lunga “In the distance” (oltre undici minuti) che offre un campionario ampio di quanto proposto nell’album. Cambia però molto poco perché veri picchi, come avrete capito, non ce ne sono. Se non vi piacciono le sorprese, se non disdegnate le pennichelle, se volete solo passare cinquantatre minuti tutto sommato piacevoli e rilassati con sonorità familiari confezionate in modo non troppo creativo, se le vostre pretese sono solo queste… potete farvi tranquillamente avanti, altrimenti fate finta di nulla.
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Jessica Attene
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