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A quasi due anni dal debutto torna il gruppo capitolino con un album ispirato alla fantascienza e agli eroi dello spazio, come ampiamente espresso dai testi e dalla ricerca di certi effetti sonori. Emerge ovunque la passione per la musica elettronica tedesca dei seventies, fusa comunque in un contesto di matrice sinfonica. Maestosi gli effetti sonori del Moog, usato a profusione, che vengono sfruttati per creare atmosfere avvolte ora di mistero ora di trionfante ottimismo. Il sound è molto rude e graffiante, dal sapore analogico (in un brano viene persino riprodotto il fruscio del vecchio vinile con tanto di puntina che viene improvvisamente sollevata) e riporta alla mente tutto un filone cinematografico e letterario di quella fantascienza forse un po' naïf che spopolava negli anni Sessanta. Lo stile adottato prende in sostanza le distanze dal più classico debutto. La title track, bella ed articolata, è una suite di quasi 20 minuti che si avvale del virtuosismo di Alessandro Capotto della Periferia del Mondo al sax soprano e costituisce la rappresentazione strumentale di una saga spaziale. I brani cantati sono 4 su un totale di 8: "Broken Shell", una timida e breve ballad, e "Pieces left behind" (che assieme a "In the deep" costituiscono i frammenti di un'unica storia) sono in lingua anglosassone; “Il difficile equilibrio tra sorgenti di energia”, un riarrangiamento di un vecchio pezzo del gruppo, e la conclusiva "Nexus" sono invece in italiano. Le parti strumentali hanno tuttavia un ruolo preponderante nell'economia dell'album. Da segnalare infine lo strumentale "veS mI' taHghach" (il cui titolo in dialetto klingoniano significa "danza di guerra"). Nel complesso si tratta di un'opera riuscita, in quanto sembra trasmettere tutte le sensazioni pensate e ricercate dalla band. L'aspetto più debole risiede, a mio parere, nel cantato in inglese, riguardo la pronuncia a dir poco scolastica.
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