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DAAL Dodecahedron Agla Records 2012 ITA

Ormai lontani dalle serate solitarie nel ritiro di campagna che aveva visto la nascita di “Disorganicorigami”, i DAAL sono divenuti un macchinario molto complesso e sofisticato, imperniato sulla sperimentazione. L’ultima trovata del duo, composto dal tastierista Alfio Costa e dal batterista Davide Guidoni, è un album costruito su una serie di dodici racconti (ecco il dodecaedro), scelti fra i tanti inviati dai fans che avevano risposto all’appello del duo. Anche parlare di duo diventa a questo punto restrittivo, visto che sono ben otto gli ospiti chiamati ad arricchire le visioni musicali dei DAAL. Fra questi troviamo Ettore Salati alla chitarra, Luca Scherani al bouzouki, Roberto Aiolfi al basso elettrico, Alessandro Papotto al sax, al flauto e al clarinetto, Vincenzo Zitello all’arpa bardica e al flauto basso, Marcella Arganese alla chitarra classica, Chiara Alberti al violoncello e Sylvia Trabucco al violino. Già da certi particolari si riesce a intravedere qualche caratteristica chiave del nuovo album: la copertina nera, con simboli simil alchemici (e le alchimie di questo disco sono tante), i racconti, quindi le visioni evocate dai suoni e la commistione fra i suoni tastieristici vintage di Alfio, i disegni percussivi di Davide (non potevano mancare nel suo corredo i Kimerism Gong che forgia egli stesso in persona) e una serie di strumenti dalle sonorità acustiche, folk e dal fascino antico. I presupposti per divertirsi insomma ci sono tutti.
L’incipit è un abisso oscuro senza fine, a dispetto del titolo, “Bianco”, colore nel quale si legge tutta l’angoscia di un’anima morta. La musica è una specie di colonna sonora noir che ricorda vecchi film dell’orrore, sinfonica, elegante, imponente, nel contesto della quale fanno effetto alcuni particolari, come il piano freddo, volutamente dissonante, ed i tanti dettagli percussivi, come aghi di ghiaccio che affondano nella pelle. Loop elettronici, un organo quasi liturgico, l’eleganza dell’arpa bardica, una chitarra floydiana, col bellissimo effetto dello slide, sono gli elementi che impreziosiscono “Sclerotic Days”, ancora una volta dominata da visioni sinfoniche, seppure cupe, plumbee e sofisticate. Le sonorità imponenti dal sapore nordico, con chitarre e tastiere pesanti, che rappresentano lo scheletro de “La suora nera” contrastano con la semplice eleganza delle sequenze di musica da camera disegnate dal violoncello e dal piano. Inaspettatamente seducente è “La bambola di lana”, con violino e violoncello che scivolano su una base vellutata che potrebbe ricordare una ballad degli Anekdoten. Bellissima la batteria, appena accarezzata, e penetranti sono le oscure visioni folk gotiche. Insomma, chi temeva un disco ostico ed inascoltabile si ricrederà presto perché, nonostante le stranezze, come quelle della minimale e delirante “L’ultimo incontro”, questo disco è stranamente e sinistramente ammiccante.
La title track occupa la posizione centrale e si basa proprio su un racconto di Davide Guidoni. La lunga introduzione elettronica che sembra dominata da tanti riverberi metallici non fa altro che preparare la strada ad un crescendo vigoroso, ancora una volta Floydiano, fornendo un accostamento decisamente particolare. “La torre” offre paesaggi addirittura sereni, dal feeling new age, e sembra quasi di andare lentamente alla deriva, al morbido pulsare dei tamburi, dopo una strada fino ad ora in salita. Se “Il bambino e il sogno” appare ancora e stranamente astratta e rarefatta, con le sue visioni elettroacustiche, “I can not let go” riacquista inaspettatamente corpo e potenza con le sue trame rock sinfoniche più delineate, impasti tastieristici superbi ed un violino sul finale da brividi. Quasi cinquanta secondi di suoni ambientali, con il mare che mormora sullo sfondo, introducono una lunare “The moon is pale tonight”, con una performance di Alessandro Papotto al sax che fa correre i brividi lungo la schiena. Le languide trame soft jazz sono lambite da pochi ricami di Mellotron e dalle delicate carezze percussive di Davide sulla batteria. I disegni melodici sono semplici ma eleganti e cristallini: una vera delizia. “I left for me” recupera colori ombrosi e acquisisce una carica atavica e tribale, con tamburi sordi e gravi e un sapore che ricorda paesaggi desertici d’oriente. Con “Il padre che vedevo distante” siamo giunti ormai all’ultima faccia del dodecaedro con un ritorno a tinte hard sinfoniche tenebrose.
Questo album è frutto di un lavoro veramente attento e del minuzioso vaglio delle giuste colorazioni timbriche, di accurate scelte percussive, della selezione di dettagli specifici. L’elettronica, la sperimentazione, si compenetrano in uno scenario pur sempre e fondamentalmente sinfonico in cui la melodia riesce costantemente, in un modo o nell’altro, a dominare. La musica è onirica e riesce a materializzare scenari mentali fantastici e a volte ha il gusto della colonna sonora o del racconto musicale. Le varie influenze musicali vengono qui mescolate in un insieme molto personale che oscilla fra l’antico ed il moderno.
Non era facile andare oltre quanto realizzato nei due precedenti album ma Davide e Alfio ci sono riusciti in modo davvero elegante e sicuramente superare questo disco non sarà un gioco da ragazzi. Ma se il duo è riuscito a sorprendermi ancora una volta, perché mai non dovrebbe farlo in futuro?
Per la cronaca e in chiusura, faccio un rapido accenno alla splendida edizione limitata che spero vi siate già accaparrati per tempo: in questo caso il CD è contenuto in una sacca in tessuto che racchiude anche un intero bonus EP intitolato “The call of the Witches”, con ulteriori trentatre minuti di musica tutta da scoprire…



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Jessica Attene

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