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ARASHK Sovereign autoprod. 2007 IRAN

Se avete visto il film “I gatti persiani” di Bahman Ghobadi forse potete immaginare cosa significhi fare musica rock o addirittura incidere un album in Iran. L’uscita di un album simile, certamente imperfetto e limitato sotto molti punti di vista, vi sembrerebbe una specie di miracolo, anche perché, attraverso la matrice grezza di suoni non brillanti di questa opera realizzata in maniera a dir poco casalinga, si intravedono l’estro creativo e la bravura di questa band, un terzetto di ragazzi composto da Salim Ghazi Saeedi (chitarra, basso, tastiere), Pouyan Kahajavi (chitarra, basso e voce) e da Shahram Khosraviani (batteria). Il gruppo è assieme dal 2001 e questo è il suo secondo album, giunto a distanza di un anno dal debutto “Abrahadabra”. Registrazione e masterizzazione sono a cura dello stesso Salim che, considerando gli scarsi mezzi e le limitazioni imposte dal paese di origine, ha fatto un lavoro più che dignitoso. Le idee di base piacciono molto: il gruppo si propone infatti di creare una specie di ponte fra oriente ed occidente, inglobando nella propria musica, un robusto hard rock con venature sinfoniche, elementi appartenenti a culture diverse. Il rock di base, ovviamente appartenente alla cultura occidentale, viene contaminato da intriganti arabeschi, intessuti principalmente da una chitarra ruvida e vivace, che ci portano invece verso oriente. Le colorazioni elettroniche delle tastiere completano il quadro, molto grezzo, ma comunque ben ideato, sicuramente coraggioso, e carente principalmente a causa dei poveri mezzi tecnici con cui è stato realizzato. Ad ispirare le otto tracce strumentali che compongono questo breve album (26 minuti in totale) è il “Libro dei re” (“Shahnameh”) del sommo poeta Ferdowsi che narra la storia di sovrani e cavalieri dell’antica Persia. Questo retroterra fatto di leggende antiche si respira chiaramente attraverso la musica che assume colorazioni fantastiche nonostante tutte le limitazioni di cui abbiamo parlato. In particolare l’aspetto più deficitario è rappresentato, come accennato, dalla registrazione e in generale dal suono degli strumenti, con una chitarra molto sporca e una batteria dalle timbriche poco convincenti. Considerato comunque il contesto in cui nasce quest’opera, direi che si tratta di un prodotto apprezzabile e per molti aspetti interessante, pur con tutti i suoi limiti. Se questi ragazzi avessero la possibilità di fare sul serio, con mezzi professionali, sono certa che il risultato sarebbe nettamente superiore se non entusiasmante.


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Jessica Attene

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