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LEAP DAY |
From the days of Deucalion, chapter 1 |
Oskar Productions |
2013 |
NL |
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Evidentemente i Leap Day sono una specie di maledizione per me, come io credo di essere una specie di maledizione per loro. E’ ormai il loro terzo album che sono costretta a subire, così come loro si beccano la terza stroncatura di fila. Non c’è feeling fra noi, diciamolo, ma sono proprio curiosa di sapere se esiste qualcuno che davvero ami la loro musica. Eppure, signori miei, questo in teoria è un supergruppo che include un paio di membri dei Flamborough Head, band derivativa, è vero, ma niente affatto male. Ecco che, non contenti di aver confezionato due album men che mediocri, i nostri Leap Day si cimentano nientemeno che con un concept album ispirato al libro “Mondi in collisione” dello psicologo e sociologo sovietico Immanuel Velikovsky, un saggio in cui l’autore ipotizza che in epoche remote la Terra sia stata colpita da eventi catastrofici generati da impatti con altri corpi celesti. C’era proprio bisogno di fare questo passo tanto più lungo della gamba? Ma non è tutto: un evento catastrofico è sicuramente rappresentato dal fatto che a questo album ne seguirà un secondo (vedete le parole “chapter 1” nel titolo?) registrato in concomitanza a questo qui. Il che vuole dire che, avendo voluto il gruppo legare questi due dischi sia ideologicamente che musicalmente, se dovessi essere io a curare la recensione del secondo capitolo, i Leap Day totalizzerebbero ben quattro stroncature su una discografia di quattro album! Arrivati a questo punto è giusto che argomenti un minimo, tanto per farvi capire. Uno dei massimi cataclismi che colpisce questo, come i precedenti lavori, è la voce di Jos Harteveld che suona anche la chitarra. Quindi, volendo spegnergli il microfono, il buon Jos avrebbe comunque qualcosa da fare, perché allora non seguire questo consiglio? Di buono c’è (sì, c’è qualcosa di buono!) che l’album non è verboso come potenzialmente potrebbe essere un concept e quindi ci viene risparmiata una parte dei supplizi. Inoltre l’utilizzo della voce in background del chitarrista Eddie Mulder e del tastierista Derk Evert Waalkens mitiga un po’ la performance di Jos. Ma ascoltate “Hurricane”: quando si tratta di dover fare acuti Jos dà sicuramente il peggio di sé. Ma anche in “Haemus”, dove pathos e teatralità dovrebbero essere i requisiti principali, troviamo una performance a dir poco imbarazzante; se considerate poi che questa è una di quelle tracce in cui le parti cantate superano i momenti strumentali ne converrete che l’effetto catastrofico è a dir poco amplificato. Riguardo la musica, se ci dovessimo limitare all’intro, “Ancient time”, faremmo prima ad usare il CD come zeppa per il tavolino traballante: si tratta di una serie di arpeggi di chitarra che dovrebbero creare una atmosfera di mistero e di attesa ma tutto è così tremolante ed incerto che sembra opera di un bambino alle prime lezioni di solfeggio. Riguardo lo stile ci muoviamo come al solito nei territori del new prog che tanto piace agli olandesi ma, a differenza di altri gruppi che hanno saputo coniugare al meglio questo stile, Flamborough Head inclusi, il risultato appare qui abbastanza disorganizzato e a tratti sciatto. Con “Sign of the 13th” che segue la breve introduzione, si è tentato di fare qualcosa di epico e che sia all’altezza delle tematiche del libro con orchestrazioni, suoni cosmici e un andamento in lento crescendo. Presto però ci accorgiamo che dopo tanti fuochi d’artificio, compreso il Moog spaziale, la sostanza artistica è ben poca: arrivati al culmine il pathos si affloscia d’un botto e Jos ci dà il colpo di grazia. L’idea di base non era poi così male ma il brano andrebbe in un certo senso ricostruito da capo. Con “Changing direction” il gruppo tenta di darsi una spintina ma le boccate d’ossigeno sono ben poche e il ritornello, che vorrebbe essere cantabile ma che non lo è, ci porta all’asfissia. Nel marasma generale troviamo qualche momento strumentale da salvare, soprattutto quando si tenta di sviluppare le tematiche spaziali, ma nulla che possa cambiare il destino di questo dischetto. Devo però ammettere che una cosa bella quest’album ce l’ha e lo voglio dire, così per consolare me ed i lettori: la copertina di Rafal Paluszek che ha lavorato anche per i Galaad e gli Osada Vida. Quindi guardatevi pure la copertina e se decideste di andare oltre non dite che non siete stati avvertiti!
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Jessica Attene
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